05.06.2020
di Giulietta Montagni
Per poter avvicinarsi almeno in parte al significato di straniero bisogna essere stati una volta stranieri, essersi sentiti stranieri ed essere stati considerati tali.
Nel mio piccolo, quando dalla Toscana, mai lasciata e sempre tenuta a modello unico, arrivai in Friuli Venezia Giulia questo mi capitò.
Da una Toscana in cui era frequente e ben tollerato sentir parlare di generici “marocchini” per indicare i connazionali provenienti dal sud mi trovai qua con la mente ogni giorno affollata di domande che mettevano in discussione tutto il modo di vivere che mi caratterizzava.
Avevo da districarmi tra il cercare riferimenti spaziali in mezzo ad architetture differenti dalle mie, note, e i riferimenti storici mai anche in seguito né conosciuti né percepiti fino in fondo.
Tutto questo preambolo per riflettere su quanto tutto ciò mi sia poi servito e mi serva tuttora nel mio amatissimo lavoro.
Sono una maestra di scuola primaria di frontiera che, come tutte le frontiere, separa sì, ma anche collega popoli e differenze.
Lavoro – per scelta – in un plesso a tempo pieno in cui c’è l’opportunità di frequentare bambini di varie provenienze. So che se fossi rimasta in Toscana non avrei sicuramente saputo riconoscere negli occhi dei bambini stranieri l’accadente.
Un’altra opportunità che mi capitò e seppi cogliere (perché questo è un importante binomio che serve nell’apprendimento del vivere) quando ero alle primissime armi nel mondo della scuola e il “ruolo” era ancora un miraggio, fu l’imbattermi in uno dei pochissimi corsi di aggiornamento ai quali ho partecipato: il tema riguardava l’importanza fondamentale della relazione nella scuola.
L’importanza della relazione triangolare insegnante-bambino-genitore-insegnante.
Lo pagai quel corso perché non ero un’insegnante a tempo indeterminato.
Un investimento.
E questo applico sempre anche con i bambini stranieri, con le famiglie straniere condendo il tutto con l’altro indispensabile ingrediente: il rispetto.
Ma il rispetto quello vero, quello che ottieni dentro di te cercando giorno per giorno di liberarti il più possibile dai pregiudizi, cercando di educarti ogni giorno a non usare mai più quelle frasi fatte, quegli stereotipi, quelle banalità sui burqa e sulla cultura “diversa” neanche con le colleghe; anzi a lasciarle cadere se formulate da altri.
Ecco, veri rispettosi si può diventare dopo non esserlo stati. Con la presa di coscienza del processo di cui tu stessa sei artefice.
Tutto ciò mi ha permesso piano piano di andare davvero verso.
Di tenere sempre saldissimo il timone sull’obiettivo. Un obiettivo. L’unico. Il solo: il bene del bambino. Di ogni bambino. E così diventi anche una mediatrice, e così impari a non impaurirti se un bambino ti dice che sei una stronza. A chiedere scusa. E così impari ad attendere tempi, capacità. Fiducia.
Già fiducia. La do, se voglio averla. Ma bisogna darla davvero. Bisogna liberarsi di quei trucchetti di bassa lega che non sono degni di essere usati da dei formatori.
E ora si parte.
Davanti a me un bambino straniero e non ho che il sorriso e col tempo forse, se me lo permetterà, le carezze: due grandi mezzi. Io fra le sue esigenze e quelle della scuola, ambedue da tenere di conto.
Tutti però si aspettano “l’integrazione” del bambino cioè quella cosa che lo induce a diventare simile a noi senza avere gli stessi privilegi. Complici inconsapevoli le “mediatrici culturali” che sono ridotte a semplici traduttrici di norme e regole?
Oppure questa integrazione potrebbe essere un processo di osmosi tale per cui anch’io, anche noi ci lasciamo contaminare, apprendiamo delle cose? Questo, inevitabilmente avverrà volenti o nolenti; noi tutti nella società saremo contaminatori e contaminanti come è sempre successo.
Sarebbe però opportuno che già la scuola riuscisse a travalicare certe tecniche asettiche, che non vanno certo eliminate bensì usate.
Chiedendoci sempre però se tali tecniche aiutino a “conoscere” o a “costruire” l’altro.
E poi la famiglia. Il triangolo deve funzionare. DEVO assolutamente mettermi in contatto senza impaurirli dapprima, senza lasciare che siano loro a condurre il gioco subito dopo. Talvolta per certe famiglie (comprese quelle italiane) la scuola finisce con la campanella.
C’è da lavorare…insieme. Darò tutta la mia possibile disponibilità perché mi diano la loro. Con tenacia, non con testardaggine. Se riceverò dei rifiuti saprò aspettare e tenterò un’altra via. Ricercherò il coinvolgimento in attività extrascolastiche il sabato, la domenica. Mai mi trincererò dietro un “…se non interessa a loro”.
Questi bambini diventeranno italiani oltre che….”esi”; sono già italiani, vogliono esserlo, vogliono essere anche italiani.
Per far sì che ciò avvenga abbiamo da imparare l’italiano insieme: un compito importante che sarà motivo di studio e di revisione anche da parte mia.
Lo vedo l’accadente negli occhi che guizzano quando cominciamo a capire, li vedo i gesti più sicuri di chi comincia a formulare frasi.
Ho nelle orecchie gli applausi spontanei della classe che si meraviglia nel sentir leggere il compagno per la prima volta. L’abbiamo aspettato tutti insieme.