Cazzotti sugli zigomi

di Isotta Orlando

Gestione del conflitto nelle relazioni interpersonali, così si chiama il progetto al quale ho potuto prendere parte durante il mio tirocinio svolto nell’ I.P.M. di Treviso.

Il progetto prende spunto da un’esperienza simile proposta ai detenuti adulti basata sui percorsi per uomini maltrattanti offerti dal CAM (centro di ascolto uomini maltrattanti, nato a Firenze nel 2009), l’obbiettivo principale è la presa di consapevolezza e la responsabilizzazione dei ragazzi detenuti nei confronti della violenza quotidianamente subita e/o agita e una volta raggiunta la consapevolezza dare degli strumenti per contrastarla senza ricorrervi.

Il progetto si è svolto per una decina di incontri all’ interno della palestra dell’ I.P.M. gli incontri avvenivano il venerdì mattina, il gruppo dei ragazzi era molto disomogeneo e le loro presenze discontinue sia nei singoli interventi (arrivavano ad attività iniziata o lasciavano il gruppo prima che fosse conclusa, a volte non per loro volontà ma perché costretti dagli agenti) sia per tutto il periodo del progetto ( talvolta non potevano partecipare alle attività per via dei divieti d’incontro con altri detenuti o perché altre attività si  sovrapponevano a quelle del gruppo).

Gli incontri avevano una struttura simile, dopo una piccola parte di saluti nel cortile interno, l’attività cominciava con una proposta legata alla sfera emozionale partendo dai ricordi, dalle emozioni suscitate da brani o musiche, o dalle simulate tra operatori si cercava di esaminare più a fondo le emozioni legate ai vissuti emersi dalla stimolazione, lasciando i ragazzi liberi di esprimere idee e opinioni cercando di indirizzare verso gli argomenti da trattare la discussione a volte molto animata ma accogliendo le provocazioni dei ragazzi.

Quando mi è stato presentato il progetto mi sono chiesta il perché di un nome tanto altisonante ma soprattutto perché nel titolo non fosse presentato chiaramente ed esplicitamente il concetto di violenza, nucleo dell’ intero progetto e filo conduttore dei diversi interventi. Così ho fatto conoscenza di alcuni taboo legati al linguaggio carcerario, infatti proprio in questo luogo dove gli atti di violenza sono spesso all’ordine del giorno questa parola viene pronunciata a fatica, sono molte le parole che non vengono nemmeno sussurrate in carcere, come se non pronunciare determinate parole permettesse di ignorare il concetto che definiscono.

Di fatto anche se la parola “violenza” non è mai stata pronunciata molto spesso nelle risposte date dai ragazzi alle provocazioni si poteva notare una forte aggressività, non era raro che azioni violente venissero descritte con ricchezza di particolari o mimate con veemenza.

Lavorare con il gruppo era spesso difficoltoso non solo per le problematiche dei ragazzi ma per la difficoltà di gestione e coordinazione con gli agenti della Polizia Penitenziaria che spesso, di fronte ai detenuti, rimproveravano i conduttori del gruppo appigliandosi ad inerzie, più di una volta hanno interrotto l’ attività sostenendo che non si potesse usare la cassa per la musica quando da parte degli educatori era stata fatta richiesta alla direzione del carcere, questi piccoli diverbi impedivano di fatto il mantenimento del focus sull’ attività inoltre molto spesso i ragazzi arrivavano in ritardo, se ne andavano prima o erano trattenuti nelle loro celle per diversi motivi. Tutto ciò rendeva il dialogo discontinuo e i pochi progressi si perdevano quando i giovani reclusi erano impossibilitati a partecipare. Spesso il gruppo era formato da più educatori e volontari che dai ragazzi è questo rendeva difficoltoso il dialogo doveva sembrare ai detenuti molto forzato e la presenza di molti adulti poteva essere percepita come intimidatoria da molti di loro oltre al fatto che potevano sentirsi più esposti e giudicati soprattutto quando mancavano le misure di paragone con gli altri.

Nonostante le molte difficoltà alcuni ragazzi hanno risposto molto bene alle provocazioni mettendosi in gioco e riportando pensieri sinceri grazie anche al clima di ascolto reciproco e fiducia creato degli educatori e dalle volontarie. Alcuni dei ragazzi hanno scavato nel profondo lasciandosi coinvolgere anche emotivamente cosa che mi ha molto stupita, e senza timore di venir giudicati hanno espresso i loro dolori, spesso però erano momenti fugaci quelli in cui parlavano a cuore aperto ed erano subito pronti a scherzare e ridere come se il peso delle loro parole fosse così difficile da sopportare da non permettere loro di soffermarsi a lungo su queste ferite. Vedere gli occhi di questi ragazzi all’ apparenza molto duri, cresciuti troppo in fretta e ricoperti di tatuaggi che si moltiplicavano di settimana in settimana, riempirsi di lacrime lascia esterrefatti e talvolta commossi, molto spesso mi sono trovata ad ascoltare con i brividi e le lacrime agli occhi per le riflessioni e i ricordi trasmessi. È un vero peccato non poter dare più ascolto, non creare un contenitore sicuro per i malesseri e i ricordi, per i racconti e i conflitti che hanno dentro di loro. Parlare in gruppo diventa catartico, una modalità di confronto quotidiana dove il problema di uno trova ascolto, comprensione e soluzioni o modi per fronteggiarlo nelle esperienze e nei vissuti condivisi.

La velocità con cui i ragazzi passavano da tristezza ad aggressività è stata esplicitata molto bene durante una simulata fatta durante l’ultimo incontro del progetto. Enzo, l’educatore, ha chiesto ad un ragazzo di fingere di essere in autobus sedendosi di fronte a lui, dopodiché ha iniziato a fissarlo intensamente a quel punto il ragazzo si è subito irrigidito e ha chiesto con tono minaccioso perché lo stesse fissando passando dopo poco ad aggressioni fisiche prima muovendosi a scatti sulla sedia e poi spintonando l’ educatore, che in quel momento si è inginocchiato di fronte scusandosi, l’ armatura violenta del ragazzo è subito crollata e ha abbracciato l’educatore lasciando tutti sorpresi. Purtroppo il tempo a nostra disposizione era quasi finito ed uno degli agenti ha portato via questo ragazzo prima che riuscissimo a rielaborare questo suo gesto assieme agli altri.

Cazzotti sugli zigomi. Il mio primo giorno in I.P.M.. Un altro gesto molto forte di cui siamo stati testimoni, durante l’ attività che stavamo svolgendo in pochi secondi la scena di fronte a noi è cambiata, due ragazzi sono entrati di corsa nella palestra dove stavamo rievocando ricordi felici della nostra infanzia, e tra il ricordo dei profumi di una casa che non c’è più in Pakistan e quello del calore di una stufa in Ucraina ci ha interrotto il rumore di passi concitati e ossa che si scontrano a gran velocità lasciando gli altri educatori ammutoliti, a dire il vero io non ho faticato ad assimilare quel gesto violento e a tornare senza scompormi all’ attività del gruppo, mi sono chiesta se sono ormai assuefatta da tutta la violenza che c’è nel mondo da non lasciarmi sconvolgere nemmeno quando accade a pochi centimetri da me, se è normale che dopo pochi minuti la mia vita fosse ripresa come se non fosse successo nulla e se questi pensieri vengano condivisi dalla maggioranza dei miei coetanei qui o se sono solo io ad essere pronta a vedere esplodere attorno a me la violenza tornando poco dopo alla tranquilla quotidianità.

Dopo questa esplosione siamo però riusciti a rielaborare anche con i ragazzi che partecipavano al gruppo, ma non quelli coinvolti nella colluttazione, quest’esperienza di cui siamo stati testimoni, rendendoci capaci di mettere subito in pratica alcuni strumenti per contrastare  la violenza tra cui appunto i ricordi delle cose positive aggrappandosi alle quali ci si può per un po’ dimenticare delle brutture e delle violenze che caratterizzano il quotidiano delle loro vite sia in carcere che fuori.

Inclusione sociale a basso impatto sulla comunità locale

Testimonianza di un’accoglienza possibile nel territorio della provincia di Bologna

12 gennaio 2021 di Simone Varesano

Oggi in Italia, affrontare discorsi sull’accoglienza di migranti e richiedenti asilo risulta quanto mai complesso, a causa di diversi fattori: primo fra tutti la persistente strumentazione politica che circonda la tematica, oggetto di discorsi connotati da forti componenti ideologiche che inficiano sulla qualità delle affermazioni e delle argomentazioni esternate dai protagonisti della politica tutta (senza distinzione di appartenenze politiche), dando vita a dibattiti sterili che a nulla portano se non alla costituzione di “tifoserie” contrapposte.

Viene quindi riportata la testimonianza di un’esperienza di tirocinio svolta presso una struttura SPRAR (il Sistema di Protezione per Richiedenti asilo e rifugiati, istituito ai sensi della legge 189/2002, ora sostituito con l’istituzione, ai sensi del DL. 113/2018, convertito in L. 132/2018, del Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri accompagnati, SIPROIMI) nel territorio della provincia di Bologna, più precisamente nel Comune di Galliera.

“Casa Galliera” nasce inizialmente come centro di accoglienza speciale (CAS) di seconda accoglienza, per volontà di Don Matteo Prosperini, parroco della Chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio a San Vincenzo di Galliera: avendo a disposizione le sale parrocchiali, l’obiettivo intrapreso è stato quello, appunto, di fornire un aiuto sostanziale a favore di richiedenti asilo e rifugiati provenienti dagli Stati dell’Africa subsahariana, arrivati in Italia seguendo le rotte migratorie del Mediterraneo. Per il funzionamento della struttura, il servizio è stato poi attuato attraverso la presa in carico del progetto da parte della cooperativa sociale “La Piccola Carovana”.

La particolarità di tale esperienza sta nella configurazione che è andata assumendo nel corso del suo sviluppo: in particolare, l’equipe di lavoro, costituita dal coordinatore Damiano Borin e gli operatori Roberto Bartilucci e Angela Assinelli dipendenti della cooperativa, insieme a Don Matteo, hanno attivato sin dalla costituzione dello SPRAR una modalità di lavoro reticolare, attraverso un coinvolgimento della comunità locale, in primis i fedeli della comunità parrocchiale. Hanno quindi avuto coscienza del possibile impatto del progetto sulla popolazione residente, considerandola quale destinataria stessa del loro agire professionale, oltre naturalmente ai beneficiari stranieri.

Pertanto, l’implementazione dell’accoglienza si è svolta su più piani, diversi ma tra loro interconnessi:

essere operatori SPRAR includeva un lavoro sul contesto globale in cui si andava operando, sapendo che la costruzione di legami solidi con gli enti comunali, la popolazione e i servizi costituisse un requisito fondamentale per la buona riuscita del progetto.

Sono state organizzate varie assemblee ove i residenti potevano esporre i loro dubbi, le loro perplessità e ricevere risposte adeguate dagli stessi operatori, i quali, a loro volta potevano presentare il loro lavoro, il progetto di intervento nella sua complessità, o anche solo rassicurare la popolazione in merito alle preoccupazioni che naturalmente emergono nel momento in cui si assiste ad un cambiamento che può incidere fortemente sul contesto di vita di un piccolo comune di circa 5000 abitanti.

A ciò si sono aggiunti momenti di pura convivialità, come cene collettive o anche feste di compleanno dove gli stessi beneficiari si sono messi a disposizione dei partecipanti, preparando cene etniche con pietanze tipiche dei loro paesi di origine: è stato grazie a questi momenti che è avvenuta la conoscenza diretta e quindi il raccordo tra ospitati e ospitanti,


dando vita e successivamente consolidando quello che si può definire il “buon rapporto di vicinato”;

non sono mancati esempi, infatti, in cui alcuni residenti appartenenti alla fascia più anziana della popolazione si sono affezionati ai beneficiari del progetto SPRAR, instaurando un rapporto di mutuo aiuto ove i secondi si rendevano disponibili nell’aiutare i primi a fare la spesa, e viceversa i primi invitassero a pranzo i secondi .

A ciò si è aggiunto un lavoro attento da parte degli operatori (anche grazie alla scelta di optare per un basso numero di beneficiari da accogliere, pari a dodici) sul percorso di realizzazione personale dei loro utenti: in un’ottica di collaborazione e co-costruzione dei progetti esistenziali di ciascuno, è stata possibile l’attivazione di tirocini retribuiti nell’ambito della manutenzione del verde pubblico, a partire però dalla partecipazione dei richiedenti asilo in progetti di volontariato, in modo che gli stessi maturassero un senso di cittadinanza attiva che li portasse innanzitutto a spendersi, in termini di attività e competenze da mettere in gioco, per la comunità ospitante. Da qui, è stato poi possibile sviluppare i loro percorsi in ottica anche più propriamente professionale, accompagnati dalla frequenza di tutti i beneficiari a corsi di lingua italiana presso il CPIA (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti), sito in un comune adiacente a Galliera.

Il lavoro svoltosi a “Casa Galliera”, dal raccordo con la comunità locale all’attenzione dei progetti esistenziali dei beneficiari, sicuramente non può considerarsi un caso esemplificativo di tutto il panorama nazionale dell’accoglienza:

può essere però utile nel dimostrare quanto questa non sia un obiettivo utopistico, quanto piuttosto un settore del sociale ancora acerbo,

soggetto sì a difficoltà, contraddizioni, carenze e inefficienze, ma allo stesso tempo vittima, ad oggi, di una modalità di approccio istituzionale di carattere ancora emergenziale (protrattosi ormai da oltre trent’anni), affidandosi quindi soltanto alla buona volontà dei singoli attori che vi si impegnano. Ciò non consente lo sviluppo di metodologie operative solide, approcci programmatori sistemici che consentirebbero un raggiungimento generalizzato dei risultati ottenuti a Galliera.

Le condizioni strutturali del mondo globalizzato, la contiua connessione tra le nazioni di tutti i continenti impongono tale approccio, affinchè l’immigrazione non sia più da considerarsi quale emergenza che determina oneri e spese, quanto piuttosto una reale opportunità di sviluppo, senza abbandonarsi a retoriche umanistiche sterili fini a sè stesse.