UNA STRANA PRIMAVERA


di Tommaso Congera

È appena squillato il telefono, per l’ennesima volta. Nulla di che, una “semplice” richiesta di informazioni su come gestirsi durante i giorni di quarantena. “Semplice”. Come se fosse ormai la cosa più naturale del mondo ricevere telefonate del genere. Come se si potesse accettare tranquillamente il dover essere condannati alla privazione, seppur temporanea, del diritto a vivere appieno, ed essere oltremodo dalla parte di coloro che devono “insegnare” a sopravvivere al meglio alla tempesta. Come se le nostre vite fossero ormai indissolubilmente legate e condannate a scorrere in questo modo, fra l’ennesima disinfezione di mani, la scelta della mascherina più adatta al tipo di servizio da svolgere, l’attenzione alla lotteria dei colori delle regioni, la cautela nell’approccio “al rischio”, eccetera eccetera.

Esattamente un anno fa. 365 giorni dalla fine dell’alba, per trovarsi buttati nella confusione di chiaroscuri di una trincea invisibile ma drammaticamente concreta, come invisibile e reale è il nemico che si combatte. Ad un volontario di Protezione Civile, il telefono squilla spesso durante trecentosessantacinque giorni: e la neve, ed il sale antighiaccio da spargere, e l’albero caduto, e l’alluvione…. In più i corsi di formazione, gli addestramenti di squadra, le esercitazioni… Chi sceglie di indossare la nostra divisa non ha tempo di annoiarsi, mai.

Ai volontari di Protezione Civile della squadra che ho il grande onore di gestire, in quest’anno il telefono è squillato spesso. Di giorno, di notte, di domenica, il giorno del loro compleanno, a Pasqua, a Natale. E hanno sempre risposto “presente”. Si sono messi la nostra divisa color puffo, e sono andati ovunque servisse. A portare la spesa ed i farmaci agli anziani reclusi in casa per proteggerli dal contagio e a coloro i quali, purtroppo, il “maledetto” lo avevano già beccato. A distribuire le mascherine alla popolazione per tutta la città, a ritirare ricette mediche nei vari ambulatori ed ospedali, a fare tutto quanto servisse pur di tentare, ognuno nel proprio piccolo, di far finire al più presto quella “strana primavera”.

Li ho visti stremati, dopo diciotto ore di servizio filate, ma sempre “con la schiena dritta”. Li ho visti insofferenti ed arrabbiati, in certi momenti, a causa di direttive poco chiare piovute dall’alto, le quali rischiavano di pregiudicare il buon risultato delle attività, ma si sono sempre fatti trovare al loro posto quando è stato richiesto. Qualcuno ha pianto qualche volta, trovandosi davanti a situazioni difficili di persone fragili, sole, abbandonate a sé stesse, a cui l’isolamento forzato causava dei veri e propri shock esistenziali ed emotivi difficilmente gestibili da personale non specializzato, ma non si è arreso a quel momentaneo sconforto, e si è adoperato in ogni maniera possibile per far fronte all’esigenza della situazione che aveva davanti. Qualcuno di questi miei compagni d’opera non c’è più.

 Formalmente, pomposamente, si direbbe “caduti nell’adempimento del proprio dovere”.

 Se li è portati via quel coso malefico. E sì, che sono caduti nell’adempimento del proprio dovere. Ma non di un dovere imposto per autorità, qualsiasi essa sia. Hanno sublimato, col loro sacrificio, quel dovere morale che anima tutte quelle persone di buona volontà, a prescindere dalla divisa che indossano e pure se non la indossano, quel sentimento di amore incondizionato che spinge a cercare di cambiare il mondo col proprio esempio, non con la propria opinione. Sono caduti, ma hanno vinto anche e soprattutto su di un egoismo generalizzato che troppo spesso impregna la nostra società, il quale, sarebbe ipocrita nasconderlo, alcune volte si è manifestato nel suo lato peggiore anche nella fase più cruenta della pandemia, anteponendo il proprio ego a qualsiasi altro sentimento di carità ed empatia umana. Ci hanno lasciato un grande esempio, che dobbiamo e vogliamo onorare, continuando il nostro servizio. Non è finita ancora, purtroppo.

Qualche giorno fa ho fatto un veloce calcolo delle ore di servizio impiegate insieme ai miei colleghi dall’inizio dell’Emergenza COVID-19. Con una media lavorativa di otto ore giornaliere (stima assolutamente per difetto), la calcolatrice dice 7.336 ore al 31/12/2020. Freddi numeri che non rendono l’idea di cosa sia stata, e di cosa ancora è, la faccenda COVID-19. Di cosa è significato ed ancora significa, per persone normali che hanno scelto di provare, al netto delle loro umane imperfezioni e limitazioni, a rendere questa società un po’ migliore, il ricordo di quella “strana primavera”. Di quel silenzio irreale scandito solo dagli altoparlanti che davano le comunicazioni alla cittadinanza e delle sirene delle ambulanze, della visione di quei formicai umani colorati da una bandiera arcobaleno a dirci che sarebbe andato tutto bene, di quelle notti passate a dare conforto a persone fuggite da casa in preda al panico. Di quella sensazione quasi di vergogna che si provava a poter girare liberamente svolgendo i nostri servizi, mentre il resto del mondo doveva stare chiuso.

Faber, “Via Del Campo”. “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.

Quanto letame in questa storia: quanta tristezza, dolore, sofferenza inaspettati ed incomprensibili, ma da questo letame il nostro fiore rinasce e cresce sempre più bello e forte. Quel fiore del volontario, quello spirito che ti brucia dentro e non ti fa voltare dall’altra parte quando arriva il tuo momento di fare, si nutre di questo. È un fiore che se lo curi con amore, ha la capacità di assorbire tutta l’energia negativa della situazione, per quanto drammatica possa essere, e mette radici nel cuore di chi ha la giusta disposizione d’animo.

Noi eravamo, fino alla fine di quell’alba di trecentosessantacinque giorni fa, quelli dell’albero caduto da tagliare, della neve da spalare, della cantina allagata da svuotare, nella peggiore delle ipotesi quelli che montavano le tende in zona terremotata. Siamo diventati parte integrante dell’esercito anti – COVID.

La maggior parte del nostro tempo lo spendiamo ancora a combattere quel piccolo bastardo.

 Vorremmo tanto tornare a fare solo gli addestramenti per svuotare cantine, a tagliare alberi caduti, a lanciarci la neve mentre spaliamo. Desideriamo tornare alla normalità, prima possibile. E per questo continuiamo a restare ancora nei chiaroscuri di questa trincea. Perchè siamo convinti che anche questa la vinciamo, per noi e per tutti, se tutti insieme lottiamo. Sarà dura, ma noi siamo testardi, e non molliamo di un passo. Noi restiamo al nostro posto. Né santi né eroi, cavalieri con molte macchie ed ancor più paure spesso e volentieri, ma fermi nel nostro proposito di dare il nostro contributo anche a questa causa. Vogliamo tornare a riveder le stelle.

Ovunque esse saranno.

Liberi.

Tra le sbarre

di Isotta Orlando

Ma cosa fa un’educatrice tra le sbarre?

L’ educatrice della Medicina Penitenziaria si occupa della gestione dei singoli casi e delle richieste fatte dai detenuti spesso inerenti la burocrazia. Da quando il cappellano del carcere ha dovuto per problemi di salute abbandonare il suo posto in prima linea, molta della burocrazia che seguiva viene ora gestita dall’educatrice.

Le richieste dei detenuti sono varie e vanno dall’ aiuto nella compilazione dei documenti per il riconoscimento dello stato di famiglia al rinnovo della patente, uno dei punti cruciali dell’educatore è il riuscire a fare da ponte tra uffici ed istituzioni esterne e l’istituzione del carcere.

Così nelle ore in cui l’educatrice è in carcere prende in consegna le varie richieste e una volta fuori inizia la coda infinita davanti agli sportelli dei diversi uffici, la litania di telefonate ai Comuni e ai patronati dove molto spesso appena scoprono che lavora per il carcere le richieste vengano rimpallate da una parte all’ altra senza che nessuno dia una risposta concreta alla problematica, venendo spesso trattata come se fosse lei stessa una carcerata.

Tra una fila alle poste per un vaglia da spedire a detenuti espulsi contenente il loro ultimo stipendio e una coda negli uffici del comune per il rinnovo della carta d’identità mi sono chiesta quale fosse la ragione di tutto questo prodigarsi, la risposta mi sarebbe arrivata poco dopo proprio durante i primi colloqui con i detenuti, l’ educatrice usava come una scusa per iniziare una relazione e creare un rapporto di fiducia tutta la burocrazia, e grazie a questa impostare un dialogo educativo basato sulle risposte concrete alle necessità dei detenuti e una volta ottenuta la fiducia riuscire a sviluppare anche argomenti più strettamente legati alla sua professione. E proprio così è riuscita ad agganciare diverse persone che anche una volta uscite dal carcere hanno mantenuto con lei il dialogo.

Non sempre però la sua funzione viene riconosciuta, soprattutto tra i detenuti italiani che hanno già una propria rete di supporto fuori è difficile per l’educatrice riuscire ad instaurare una relazione costruttiva.

Le difficoltà all’ interno del carcere sono molteplici e l’educatrice della Medicina Penitenziaria le conosce da vicino attraverso i colloqui svolti assieme ai detenuti che fidandosi di lei le raccontano le complicazioni della loro vita quotidiana.

Molte di queste derivano dal sovraffollamento, oltre alla gestione della quotidianità in spazi molto ristretti che incide spesso sull’agitazione e aggressività generale che culmina, soprattutto all’interno della sezione del giudiziario, in svariate risse e colluttazioni.

Legata al sovraffollamento c’è la difficoltà a trovare un lavoro, ci sono lunghi tempi di attesa per trovare un’occupazione all’ interno delle mura del penitenziario e i soldi sono una necessità per i carcerati sia per poter vivere dignitosamente all’ interno del carcere dove ogni extra costa molto più che all’ esterno ma anche per contribuire al mantenimento delle loro famiglie all’ esterno.

Il lavoro intramurario segue una turnazione che dovrebbe permettere a tutti i detenuti che ne fanno richiesta di avere un’occupazione ma questo non basta perché nei periodi di maggior affollamento le richieste sono molto maggiori rispetto alle mansioni proposte e solo pochi possono avere l’opportunità di svolgere un lavoro al di fuori delle mura del carcere attraverso le proposte di cooperative ed associazioni.

Tra le altre problematiche della vita carceraria è impossibile non citare gli episodi di autolesionismo, cardine dell’equipe settimanale assieme alla prevenzione suicidaria, questi eventi, pur non seguendo un andamento costante, ed essendo quindi imprevedibili, sono sempre presenti con diversi tassi di incidenza a seconda del periodo.

Nella maggior parte dei casi questi gesti, in genere tagli superficiali, sono più che altro dimostrativi, legati a domande dei detenuti come l’aumento della terapia o ad altre richieste difficili da esaudire, come il trasferimento in istituti più vicini alle famiglie. In ogni caso tutte le persone vengono attenzionate e messe sotto osservazione per un periodo perché anche se solamente dimostrativo o funzionale un gesto simile è comunque indice di profonda sofferenza ed incapacità di affrontare le difficoltà quotidiane.