Crevaduris

di Isotta Orlando

Qualche sera fa, in occasione del Cancer Awareness day e a sorpresa mi ha chiamata Delfina, era da un po’infatti che la stavo braccando per farmi raccontare come dalla sua storia è nata Crevaduris.

E così mentre si scongela la sua minestra Delfina parla parla, e io quasi non riesco a pensare a domande da farle, perché le sue parole disegnano alla perfezione i concetti e le emozioni di questo progetto e della mostra che hanno allestito la scorsa estate.

Crevaduris nasce nel momento peggiore per dar vita ad un progetto, nasce davanti ad un caffè, parlando tra amici, riconoscendo la necessità di raccontare il dolore e la rinascita.

In queste terre friulane il dolore è ancora un grosso taboo, non se ne parla, e come accade non parlandone e non avendo parole per descriverne le sfaccettature diventa difficile avvicinarsi ad esso. Come racconto il mio dolore, come lo accolgo e soprattutto come confrontarmi con gli altri che non sanno come confrontarsi con il mio dolore. Delfina racconta di quando, durante la malattia, si sentisse spesso quasi costretta ad essere forte, a rassicurare gli altri, a non far trasparire troppo il suo dolore, le sue lacrime. È quasi una ferita, aggiunge.

una ciotola riparata con il kintsugi

Insomma, inizia a parlare di dolore, prima con qualche amico e poi con altre persone che si aggiungono e a ottobre del 2020, proprio mentre ricominciano le chiusure loro, controtendenza, si aprono ad incontri pandemia vuole siano online, riescono a vedersi una volta a settimana.

Sdoganano il taboo del dolore attraversandolo con autenticità, è l’unico modo per rinascere, dice Delfina. Mi racconta anche di quanto sia necessario costruire uno spazio per chi sta accanto al dolore ogni giorno.

A dicembre il progetto inizia a prendere una forma particolare e viene fatta una Call for Artist, viene chiesto ad artisti locali e non di raccontare cicatrici, spaccature e rotture.

Le risposte sono tantissime e il gruppo seleziona 80 artisti con 69 opere che avranno il loro posto in una mostra online e poi fisica. Una mostra che diventerà spazio accogliente e non giudicante, un luogo dove trova casa un’altra loro idea.

Si chiama “io sono qui e ve lo racconto”, sono racconti di persone qualsiasi che decidono di mostrare le proprie crepe (alcuni di questi si possono trovare sulla pagina instagram di Crevaduris, fate come me, prendetevi un po’ di tempo e leggeteveli con calma, potreste ritrovarvi).

Dopo aver ascoltato, ed essermi innamorata del progetto, riesco a malapena ad articolare qualche domanda, che sembra quasi banale di fronte a ciò che ho appena ascoltato.

due persone di schiena osservano due fotografie in bianco e nero che ritraggono degli occhi

Cosa ti ha stupito in questo processo?

Il sentirmi parte di una comunità, un gruppo dove ognuno poteva mettere sul tavolo le proprie abilità, tutti diventavano risorsa e ognuno a suo modo si è messo realmente in gioco.

Cosa ha significato per te, come persona, questo progetto?

È stata la chiusura di un cerchio. Mi ha permesso di offrire bellezza e pace, di dare un peso diverso alle mie cicatrici. Io e loro siamo diventate opera d’arte. È stato un sogno che prende forma.

una bellissima cicatrice ed un ombelico

Il lavoro che avete fatto per organizzare e gestire la mostra dimostra una cura ed un’attenzione ai dettagli straordinaria, avevi già avuto contatti con questo mondo?

No, sono partita senza preparazione, ma quando ci credi molto è più facile, e ho investito moltissimo di me ed è proprio questo amore, questo sentirlo parte di me che ha dato a Crevaduris questa forma.

Non sono mai stata a contatto con l’arte, non nel senso accademico, ma nella vita ho bisogno di una parte generativa, di idee e creatività.

Il Dolore invece è un’esperienza universale, che non guarda in faccia nessuno e so che sto bene solo perché ci sono passata attraverso e ho pianto molto.

Chi è Delfina?

È una tipa a cui piace l’arancione, prendere la pioggia, che adora il suo canetto e ha un’agenda impossibile piena di cose da fare, le piacciono i dettagli e si innamora facilmente. Le piace prendere posizione, aiutare gli altri a fare chiarezza e lasciare il mondo un po’migliore.

Non le piace stare seduta a guardare.

Nella vita vorrebbe fare quella che accompagna e porta un po’di luce nelle vite, e io so che esiste un mestiere fatto proprio così.

È una che non si ferma di fronte a nulla, che quando ha scoperto il cancro è andata a fare il test d’ammissione per la magistrale in Pedagogia, perché e molto determinata e non serve che vi dica che è entrata.

Delfina è anche molto brava con le parole e se volete saperne di più su lei o su Crevaduris andate a sbirciare qui

https://www.crevaduris.it/#/

Crevaduris non si è concluso con la mostra, anzi, proprio in questi giorni c’è fermento e aria di novità, io non so nulla, ma sono sicura che ci sorprenderanno presto.

Musica concentrazionaria: cos’è?

di Sara Fievoli

Il 27 gennaio è la giornata internazionale dedita alla memoria delle vittime della Shoah. In questa occasione si ricordano eventi storici che la scuola e i media ci insegnano fino a farci impregnare tali avvenimenti nella memoria, i quali per la maggior parte di noi possono essere percepiti come racconti tragici e lontani, come qualcosa che fa parte di una società ormai distante da quella odierna a cui ci siamo abituati a vivere.

Per coloro che, per fortuna, non l’hanno vissuta è importante quindi ricordare il peso della storia e portare alla luce le tracce di coloro che ne portano ancora i segni.

BArbara di  Bert, con i capelli raccolti in una crocchia, è vestita di nero e tiene in mano un diapason.

Grazie a Barbara Di Bert, Maestra di musica del gruppo Polivoice di Terzo di Aquileia, abbiamo cercato di contribuire dando voce ad una realtà poco conosciuta all’interno dei campi di concentramento, ossia la musica concentrazionaria.

L’idea di affrontare tale tematica, molto impegnativa ed ostica per il significato e il simbolo che porta appresso, è nata a seguito di una collaborazione con la lettrice Marianna Fernetich, in cui il gruppo vocale diventava la voce della storia che veniva letta rispettando il senso e il tema scelto. Successivamente al coro si è aggiunta la collaborazione con Carlo Tolazzi, drammaturgo con il quale si è costruito un progetto in ricordo della prima guerra  mondiale e da cui nacque l’intenzione di trattare anche il tema dell’olocausto. Essendo il tema molto impegnativo, il lavoro di ricerca e studio di tale progetto, “Zakhor”, in questi quattro anni ha portato a porre delle continue modifiche. Inizialmente la musica era legata al periodo dell’olocausto e le tematiche storiche inerenti, dopodiché si è focalizzati nel canto per dare voce a brani della musica concentrazionaria nel modo più intimo e rispettoso dei testi e delle persone vissute.

Attorno agli anni ’80 del Novecento sono emersi brani e componimenti scritti in più lingue all’interno dei campi di concentramento. Oggi sono importanti testimonianze che trasmettono speranza e gioia, in totale contrasto rispetto al contesto dei luoghi in cui gli autori sono vissuti. All’interno del progetto “Zakhor” si sono volute portare alla luce due figure femminili, Ilse Weber e Frida Misul, come testimonianze di donne che attraverso la musica hanno superato la violenza psicologica e i soprusi durante la loro prigionia.

La prima, Ilse Weber, è stata una scrittrice di origine ebraica che ha vissuto la prigionia ad Auschwitz per poi essere trasferita a Theresienstadt, un campo di concentramento in cui le forme d’arte venivano innalzate e gli artisti si esibivano per il kapò e i militari tedeschi di alto rango. A Theresienstadt come poteva capitare anche in altri campi, questi brani dediti ad occasioni di festa per i tedeschi, fungevano invece per il musicista e il cantante come ultima occasione di speranza e “libertà” poiché, dopo le loro esibizioni, venivano uccisi. Gli artisti che erano molto bravi potevano godere di alcuni favoritismi e avere una vita “migliore” rispetto altri deportati, però dovevano essere impeccabili, altrimenti un minimo errore poteva costarli la vita o nel migliore dei casi venivano “solo” puniti. Inoltre, erano costretti a suonare solo alcuni componimenti per via della censura. Si ascoltavano solo opere della letteratura classica o musica tradizionale del luogo, in cui le vittime utilizzavano le arie di questa musica come atto di denuncia dei propri soprusi o per fare beffa dei propri carnefici. Gli autori adoperavano diverse strategie per il proprio fine come, per esempio, scrivere sui brani in lingua ebraica o incrociare diverse lingue in modo irriconoscibile per i tedeschi. Addirittura, talvolta attraverso la parafrasi dei brani si eviscera un significato più profondo. Un esempio ne è Ilse Weber che, grazie al suo diario nascosto, in cui continuò a scrivere racconti, storie, canzoni e a comporre, è possibile oggi riportare alcune sue denunce. In alcuni sui testi in lingua tedesca utilizza espressioni che, se contestualizzate, sono molto forti: la neve che cade, non si riferisce alla vera neve; i bambini che volano nel cielo, non è una semplice e leggera affermazione, se ragionata nel contesto storico. In questi suoi scritti traspare un aspetto fortemente antitetico tra vita e morte, in cui solo apparentemente la morte ne prende sopravvento. In realtà la musica ha permesso loro, in qualche modo, di continuare a vivere fino ad oggi.

Ilse, oltre a dedicarsi ai suoi scritti mentre era in prigionia, si occupava anche dei bambini in infermeria alleviando le loro menti con canzoni e ninna nanne, anche quando li ha dovuti accompagnare nella stanza a gas. La seconda figura femminile, Frida Misul, è una cantante italiana che è stata denunciata dalla sua insegnante di canto ed è riuscita a salvarsi dai campi concentramento di Auschwitz. La musica non l’ha mai abbandonata anche quando le hanno tolto i denti per torturarla e successivamente le è stato chiesto di cantare con il fine di schernirla. Sebbene la difficoltà, è riuscita a cantare talmente bene che proprio grazie a questo macabro gesto, divenne una protetta sotto l’ala del kapò, colpito dalle sue abilità vocali. Nel progetto “Zakhor” è stato deciso di parlare anche di lei per far sentire questo momento storico ancora più vicino a noi, come testimonianza delle diversità etniche e di vissuti personali che hanno visto le mura dei campi di concentramento.

un disegno in bianco e nero di un treno bestiame e un pianoforte, al pianoforte una donna di spalle con un vestito rosso e le mani legate dieto la schiena.

Nonostante all’interno della musica concentrazionaria vi sia questa forte dicotomia tra la voce e la musica, intesa come fonte intima di vita per ogni artista, e il destino inevitabile, come fine della loro arte, ad oggi la loro musica non è morta e possiamo ancora udirla e leggerla. Infatti, sono presenti online gli archivi della musica concentrazionaria in continuo mutamento, dato che ancora adesso la ricerca di questi componimenti continua con l’obiettivo di raccogliere più materiale e fonti possibile.


BIBLIOGRAFIA:

  • Misul F., Canzoni tristi. Il diario inedito del lager (3 aprile 1944-24 luglio 1945), Belforte Salomone, 24 luglio 2019
  • Weber I. H., Quando finirà la sofferenza? Lettere e poesie da Theresienstadt, Lindau, 20 gennaio 2016

Dalle ricerche di Francesco Lotoro:

  • volumi I, II, III.  Storia e storiografia della letteratura musicale concentrazionaria dal 1933 al 1953
  • volume IV. Elenco e analisi dei Campi sede di attività creativa musicale dal 1933 al 1953
  • volume V, VI, VII. Elenco e biografie dei compositori che hanno prodotto in cattività dal 1933 al 1953
  • volumi VIII, IX, X, XI. 600 Partiture di opere musicali scritte in cattività civile e militare dal 1933 al 1953
  • volume XII. Tavole sinottiche della produzione musicale per Campi e Autori, bibliografia, discografia e filmografia, DVD 1 contenente le registrazioni discografiche delle opere pubblicate nei voll. VIII, IX, X, XI, DVD 2 contenente una ampia scelta di interviste a musicisti sopravvissuti.

SITOGRAFIA