PERDERE É APPRENDERE: IL VALORE DELLA PERDITA NELLE PRATICHE EDUCATIVE.

di Ilaria Pala

Premessa:

E’ inutile, è solo una perdita di tempo.

Almeno una volta nella vita, si è pronunciata questa frase o l’abbiamo ascoltata da qualcuno vicino a noi. Nella quotidianità, si associa la perdita di tempo a una concezione negativa, all’insistere verso un qualcosa che non porterà a niente, che porta ad uno spreco di energie che sarebbe meglio incanalare verso altri obiettivi. Tuttavia, si può dare alla perdita un profondo valore educativo, puntando a quella che è possibile definire una pedagogia del perdere e al valore che può dare all’apprendimento dei bambini e al miglioramento della loro vita quotidiana in particolare modo riguardo al tempo, all’osservazione e all’esplorazione del mondo circostante.

Gianfranco Zavalloni: perdere tempo è guadagnare tempo.

Nel 1994, Gianfranco Zavalloni, insegnante in una scuola dell’infanzia e poi dirigente scolastico, scrive e pubblica “Il manifesto dei diritti naturali di bimbe e bimbi”. Il documento si presenta come una sorta di costituzione, con tanto di articoli, nati da una profonda riflessione sui diritti dell’infanzia e dell’educazione. Così recita il manifesto:

1- Diritto all’ozio: a vivere momenti di tempo non programmato dagli adulti

2- Il diritto a sporcarsi: a giocare con la sabbia, la terra, l’erba, le foglie, l’acqua, i sassi, i rametti.

3: Il diritto agli odori: a percepire il gusto degli odori, riconoscere i profumi offerti dalla natura.

4 Il diritto al dialogo: ad ascoltare e poter prendere la parola, interloquire e dialogare.

5- Il diritto all’uso delle mani: a piantare chiodi, segare e raspare legni, scartavetrare, incollare, plasmare la creta, legare corde, accendere un fuoco.

6-Il diritto a un buono inizio: a mangiare cibi sani fin dalla nascita, bere acqua pulita e respirare aria pura.

7- Il diritto alla strada: a giocare in piazza liberamente, a camminare per le strade,

8- Il diritto al selvaggio: a costruire un rifugio gioco nei boschetti, ad avere canneti in cui nascondersi, alberi su cui arrampicarsi.

9- Il diritto al silenzio: ad ascoltare il soffio del vento, il canto degli uccelli, il gorgogliare dell’acqua.

10: Il diritto alle sfumature: a vedere il sorgere del sole e il suo tramonto, ad ammirare la notte, la luna e le stelle.

un piccolo umano dai capelli lunghi e biondi gioca con del fango tra i sassi del fiume.

Nel manifesto, sono custoditi i  punti chiave del pensiero pedagogico di Zavalloni : il tempo, il valore della lentezza, il valore di una scuola non violenta non basata esclusivamente sulla didattica ma anche sulla relazione e il dialogo. In particolare modo, Zavalloni si sofferma sull’importanza del “far perdere tempo”: scovare strategie utili per rallentare pratiche educative e didattiche radicalizzate, proponendo strategie alternative, quali:

-Perdere tempo a parlare: Gli educatori devono “perdere tempo” ad ascoltare e a parlare con i bambini, così solo conosceranno veramente chi hanno davanti e potranno elaborare buone regole e patti del vivere insieme.

– Perdere tempo a passeggiare, camminare, muoversi a piedi: Per vivere un territorio occorre esplorarlo insieme ai bambini, fare sentire a loro gli odori dei fiori, facendo provare sensazioni che creano legami con la natura. Fare sdraiare i bambini sul prato per guardare meglio le nuvole. Anche questa è scuola, di poesia.

-Perdere tempo ad ascoltare: Vogliamo perdere tempo ad ascoltare e a raccogliere la cultura e le emozioni di ogni bambino.

-Perdere tempo a parlare insieme: parlare con i bambini e non solo dei bambini.

-Perdere tempo nel rispetto di tutti: Rispettare nei gruppi i tempi di ognuno.

-Perdere tempo per darsi tempo: scoprire le piccole cose e strade nuove da percorrere.

Perdere tempo per condividere le scelte: per giocare, per crescere.

Perdere tempo per guadagnare tempo: rallentare perché la velocità s’impara con lentezza.

un umano preadolescente, dai capelli corti e biondi guarda il mondo attraverso un binocolo azzurro

Keri Smith: Perdersi per esplorare il mondo.

Nota pedagogista e scrittrice americana,  Smith, nel suo libro “ Come diventare un esploratore del mondo” propone una nuova modalità educativa, basata sull’esplorazione del mondo esterno  e fondata sul perdere tempo e sul perdersi per trovare la vera essenza delle cose e del mondo, per instaurare relazione autentiche con gli oggetti e gli elementi della natura circostante.

“ Ci sono tanti modi di perdersi: c’è un perdersi letterale, perdersi nel bosco non sapendo ritrovare la strada di casa, o ci sono modi metaforici di perdersi. Ci si può perdere nei propri pensieri o nel tempo o si può essere un’anima persa. Nel contesto dell’esplorazione possiamo concepire il perdersi come un modo di esistere in uno stato in cui non si sa esattamente dove ci si sta dirigendo. In questo senso possiamo scegliere di perderci letteralmente, esplorando un luogo dove non siamo mai stati prima o possiamo perderci nel senso di metterci in relazione con gli oggetti e con le idee in modo da non sapere quale sarà il risultato di questa interazione.”[1]

Secondo Smith, per poter conoscere con occhi nuovi e instaurare relazioni con l’ambiente circostante, occorre perdersi, per trovare poi sé stessi e guardare con uno sguardo senza pregiudizi e preconcetti il mondo intorno a noi. L’osservazione è un precetto fondamentale per Smith, che poi si traduce in una raccolta dati: il risultato è simile ad un diario dell’esploratore, una storia di viaggio documentata e che racconta il tutto grazie agli oggetti raccolti ( e con la creazione di una sorta di museo tascabile). Mentre si osserva, si può giocare con i propri occhi: incrociandoli per sfocare la vista o tenendo un occhio chiuso. L’importante è che si prenda nota di tutto questo, perché solo così si potrà ripercorrere l’esperienza e assaporarla a pieno, conoscendo.

Nella vita, si possono perdere tante cose. Oggetti, vie, purtroppo anche persone care. Ma questi autori, hanno messo in luce un nuovo modo di vedere la perdita, donandogli un valore essenziale per conoscere il mondo e noi stessi. Per trovarsi dunque, occorre perdere tempo e delle volte, anche noi stessi, per poter esplorare e osservare il mondo con occhi nuovi.

un piccolo umano con una camicia rossa esplora tra i rami di un albero

Bibliografia:

Smith K., Come diventare un esploratore del mondo, Museo d’arte di vita tascabile; Corraini edizioni,2017.

Zavalloni G, La pedagogia della lumaca: per una scuola lenta e non violenta, emi editore, ristampa 2018.

Sitografia:

www. festivaldellalentezza.it

www.tempiespazi.it


[1]Smith, K; Come diventare un esploratore del mondo, museo d’arte di vita tascabile; pag 42, Corraini edizioni.

Diario di un’educatrice anonima

Scrivo, probabilmente cedendo a un momento di stanca disperazione.

Cosa vuol dire essere educatori? A questa domanda esistono tantissimi modi per rispondere. Ma cosa vuol dire essere educatori durante la pandemia? Anche qua, tante risposte…

E io ho la mia, molto personale. Mi sono laureata lo scorso novembre, tramite un pc, con la mascherina, senza tutti i miei cari vicino, senza poter festeggiare, dopo un percorso estenuante.

E, sempre a fine 2020, ho cominciato a lavorare con una cooperativa come educatrice professionale nelle scuole e nel servizio territoriale a domicilio. Ho preso la laurea e cominciato la mia carriera durante una pandemia ormai consolidata.

Avviarsi nel mondo del lavoro con prospettive a lungo termine (quindi non semplici lavori estivi o lavoretti da fare dopo le lezioni) è un’esperienza complicata per chiunque. Se poi, questo passaggio viene dominato da una situazione di incertezze, paure, fragilità e confusione… Be’, è ancora più complicato.

Una doccia gelata. Mi sono ritrovata a gestire dei casi delicati senza poter realizzare un’adeguata programmazione: in che modo si può creare un progetto educativo efficace ed efficiente per la persona quando non so se la settimana prossima la scuola sarà aperta? O se improvvisamente io o il minore siamo costretti alla quarantena? Per non parlare di quanti strumenti e di quante possibilità questo virus ci ha tolto.

 Le famiglie con cui lavoriamo sono in crisi, economica e non, famiglie che erano già delicate e fragili prima della pandemia. E i figli, i miei utenti, sono come spugne, assorbono il clima familiare ne soffrono.

Alle difficoltà della pandemia si aggiungono anche altri fattori, più classici di questo lavoro: mancanza di personale, comunicazioni dell’ultimo minuto, equipe che esistono solo sulla carta, colleghi inaffidabili , orari pesanti, sostituzioni improvvise.

E, infine, tutta la sfera personale dell’educatore, il quale improvvisamente fa più fatica a ritagliarsi dei momenti fuori dal mondo lavorativo perché non ci si può quasi muovere, non si può viaggiare, è difficile vedere gli amici, è difficile anche vivere serenamente la vita di coppia a causa del troppo stress.

Non sappiamo a quali certezze aggrapparci e far aggrappare i nostri utenti, i quali ora più che mai (consciamente o meno) hanno bisogno di un sostegno.

Ma è solo questo che vuol dire essere educatori nel 2021? Ovviamente no. Ed è questo “no” a farmi amare il mio lavoro nonostante tutto. Perché ci sono anche i momenti belli, durante i quali i tuoi sforzi vengono ripagati: un sorriso, un esito raggiunto, una parola in più, il complimento del capo, i ringraziamenti dei genitori…

Sicuramente ho iniziato la mia carriera con il botto in un periodo non facile. Spesso le gratificazioni non compensano la fatica e lo stress. Anche noi educatori siamo umani, con le nostre debolezze e fragilità, con le nostre paure e insicurezze.

Eppure, io e molti altri educatori non stiamo mollando e continuiamo a testa alta a fare il nostro lavoro… anche se molto spesso “nell’ombra”.

Ma questo è un altro discorso…

GENTIL-BREZZA: Educare alla gentilezza come antidoto all’egoismo sociale.

di Ilaria Pala

PREMESSA:

Educare alla gentilezza è un processo complesso, continuo, che si costruisce nella quotidianità attraverso il contributo di molti attori, dalla famiglia ai professionisti dell’educazione e dell’insegnamento.

Non si tratta solo di educare i bambini a dire parole gentili in date situazioni, bensì, con quest’approccio educativo, si propone di far cresce i bambini gentili, rispettosi di sé e degli altri.

Spesso però, ci si domanda se abbia senso in una società come quella odierna, e il periodo che stiamo vivendo, educare alla gentilezza.

A volte si pensa che essere troppo gentile sia sinonimo di debolezza, quando, in realtà, la gentilezza è una delle caratteristiche principali delle persone forti e sagge, di coloro non ricorrono alla violenza, verbale e fisica, per imporsi e che hanno un buona autostima: si sceglie di essere gentili, perché lo si sente e non per obbligo.

EDUCARE ALLA GENTILEZZA: LE ORME DA SEGUIRE.

Come si può educare alla gentilezza partendo dall’infanzia per far diventare i bambini adulti gentili?

In primis, è fondamentale dire che non si educa alla gentilezza attraverso istruzioni ma fornendo un modello da seguire: è poco funzionale dire a un bambino “ si deve fare così”, mentre è più utile mostrargli come attuare nella quotidianità atti di gentilezza, da cui il bambino potrà prendere esempio.

Tante volte, infatti, presi dalla frenesia della giornata, capita di rispondere in malo modo, dunque se il bambino osserva un adulto gentile con i suoi coetanei, e con i bambini, potrà prendere ispirazione da un modello positivo.

Educare alla gentilezza è un allenamento quotidiano. Più i bambini hanno modo di vivere atteggiamenti rispettosi e cordiali, più saranno portati a replicarli, perché considerati come normali.

E’ importante che l’adulto di riferimento (genitori come l’educatore o l’insegnate) mostrino un modello di comportamento gentile verso gli altri adulti e gli altri bambini, perché trattare ed essere trattati con gentilezza è il miglior modo per sperimentare quanto sia importante essere gentile con gli altri.

 Occorre poi che l’educatore valorizzi i comportamenti gentili: non è facile imparare ad essere gentili, per questo è importante che si valorizzino i comportamenti rispettosi dei bambini.

Se un bambino si avvicina a un suo compagno di classe per consolarlo, è bene rinforzare questo gesto gentile; essendo in fase di crescita i bambini stanno sperimentando vari approcci, e indirizzarli verso il più corretto, è il compito dell’educatore.

I bambini devono essere aiutati nel capire che certi gesti sono apprezzabili e molto importanti, non dicendo semplicemente “bravo” ma valorizzando quel dato comportamento con una frase che lo riviva: “ Sai, stato davvero gentile a stare vicino al tuo compagno quando era triste”.

Educare alla gentilezza significa anche confrontarsi sul cosa voglia dire essere gentili e rispettosi.

Ci si può confrontare su un evento di vita quotidiano e su un fatto personale, confrontarsi su cosa si potrebbe fare o su cosa avremmo fatto noi nella stessa situazione aiuta i bambini ad avvicinarsi alla gentilezza.

Si educa alla gentilezza fornendo anche un’educazione emotiva: Essere gentili significa essere rispettosi di sé e degli altri.

Parlare senza aggredire, confrontarsi senza litigare; significa imparare a riconoscere e gestire le proprie emozioni, evitando che esse si ripercuotano in modo incontrollabile sull’altro.

Ad esempio, ipotizziamo che un bambino sia davanti a noi, arrabbiato, e che cominci a rispondere male a noi e ai suoi compagni.

La prima cosa da fare è quella di prendere da parte il bambino e cercare di tranquillizzarlo. Dopo averli chiesto il perché del suo stato, gli si dirà che ha tutto il diritto di essere arrabbiato, ma che, tuttavia, non è corretto prendersela con noi e con i suoi compagni.

In questo modo, si aiuterà il bambino a riconoscere correttamente le emozioni che prova, arrivando poi con il tempo a gestirle al meglio, aiutandolo con strumenti teorici e strategie educative di supporto.

Quando si parla di educazione alla gentilezza non è possibile non parlare di empatia: imparare a mettersi nei panni dell’altro e riconoscere come ci si può sentire promuove la gentilezza più di qualsiasi imposizione.

GENERAZIONE ANSIA

di Isotta Orlando e con GenerazioneAnsia

In tempi normali avrei preso un treno, guardato scorre i campi che ormai conosco a memoria e avrei invitato questi due ragazzi in un bar del centro di quella che ormai non è più la mia città.

Ci saremmo guardati da dietro un caffè, o forse uno spritz, e avremmo parlato a lungo.

Invece ci troviamo di fronte ad uno schermo, tre millennials (fingendo di non essere nata in quell’anno di limbo, troppo piccola per ricordare gli anni 90, troppo grande per apprezzare TikTok), tre millennials qualsiasi.

Le domande le ho pronte da un po’ ma chissà dove ci porterà questa intervista.

Alice e Giulio si sono conosciuti in quel meraviglioso calderone di persone e idee che è Venezia, e li immagino mentre si raccontano tra le calli o in qualche angolo di campo Santa Marghe, immagino fiumi di parole e la sensazione di aver trovato qualcuno con cui poter parlare di tutto, davvero.

Hanno le mani nell’Arte e molta curiosità, si pongono domande e cercano assieme le risposte.

La loro amicizia, nata tra le calli, cresce sui social, e piano piano si accorgono di come la parola ANSIA sia spesso usata dai loro coetanei, nei meme e nei modi di dire, avere l’ansia sembra essere quasi una moda o forse è il sintomo di qualcosa di più pervasivo e serio.

ANSIA

Fine febbraio 2020, nessuna pandemia in vista, un viaggio in treno e un’idea in testa.

Perché non raccontare, attraverso un film on the road, questo fenomeno.

Film on the road, docufilm, videodiario e poi cinefiction, in due non è facile organizzare una produzione e la pandemia mette i bastoni tra le ruote. Ma non si fanno fermare, dedicano il loro tempo alla ricerca, allo studio, alla scoperta di quello che è ansia.

Vogliono fare un prodotto di qualità, rendere giustizia, essere leggeri si, “niente supercazzole” sottolinea Giulio, vogliono creare un prodotto di qualità.

Vogliono farlo con i millennials come protagonisti, per questo quando cercano un esperto da intervistare si rivolgono a giovani come loro o poco più grandi. Sarebbe difficile spiegare e farsi spiegare un fenomeno che non si è vissuto pienamente.

I “boomer” sanno forse dare una definizione da manuale dell’ansia, ma la percepiscono e la vivono in un modo molto diverso da noi, quando descrivono il giovane ansioso ne riportano un immagine stereotipata e spesso dispregiativa. L’ansia però non è solo un ragazzino che suda e si agita prima di dare un esame. La nostra ansia pervade la vita, rimane per mesi e spesso fatichiamo a trovare una sola causa e quindi a combatterla. Confrontarci con la generazione dei nostri genitori, chi non l’ha mai fatto alzi la mano e vi vedo che non siete molti, non ci fa affatto bene!

I nostri genitori sono nati e cresciuti in un mondo ricco, che prometteva e dava, hanno sempre saputo che studiando, impegnandosi e lavorando sarebbero riusciti a raggiungere i loro obiettivi, era un mondo di famiglie del mulino bianco? Probabilmente no, ma non era poi così male. Noi invece, che siamo cresciuti con i loro miti ci siamo scontrati con un mondo sgretolato, dove l’impegno spesso non è ripagato, siamo una generazione di disoccupati che passano per fannulloni e sdraiati ma che spesso si ritrovano a non avere le occasioni e le possibilità per lavorare. Una generazione di ansiosi. Alice e Giulio si chiedono come sarà il mondo tra quindici o vent’anni quando sarà sulle nostre spalle.

Si domandano anche perché la letteratura sull’argomento sia scarna e molto settoriale, perché venga guardato da un solo punto di vista e non si analizzino le diverse sfaccettature e le conseguenze sui diversi piani. Sappiamo relativamente bene cosa comporti per una persona convivere con l’ansia, non sappiamo però cosa possa voler dire vivere in una società di ansiosi.

Chiacchierando con Alice e Giulio, improvvisamente, mi sento privilegiata, non è una sensazione nuova, ho ventitré anni e un lavoro che mi basta per mantenermi e vivere da sola, ho vinto la lotteria, è strano però sentirsi fortunati per qualcosa che dovrebbe essere scontato. Dovrei essere felice e contenta, come i giovani “esperti” che intervistano nel loro progetto, l’ansia non dovrebbe far parte delle nostre vite e invece la conosciamo anche noi e siamo tutti un po’ schiavi del confronto, ci sentiamo colpevoli se ci lamentiamo, consci di chi sta peggio di noi, non ci sentiamo in diritto di stare male, dopotutto, dicono i nonni, non siamo mica in guerra.

A chi dice che noi millennials guardiamo solo il nostro ombelico, dice Alice, rispondo dicendo che siamo la generazione del continuo confronto, tra i pari e con le generazioni più vecchie, un confronto che è un arma rivolta contro noi stessi, aggiunge Giulio, ci guardiamo intorno e spesso non troviamo il coraggio di lamentarci perché confrontiamo il nostro star male con quello degli altri sottostimandone la gravità, il peso e le conseguenze per noi, l’ altra faccia della medaglia, continua, è la banalizzazione dell’ansia, l’attaccare questa etichetta a qualsiasi situazione sgradevole fino a perdere significato di questo termine.

È un argomento intricato, ricco di spunti, se fossimo in quella piazza avremmo ordinato un altro giro, e saremmo rimasti a parlarne ancora. Siamo dietro un pc ma Giulio mi assicura che il link non scade e promette un’altra chiacchierata.

Per chiudere una domanda, la prima che avevo segnato nel quaderno mentre quest’intervista era solo un embrione e che ho scoperto essere LA domanda di chiusura di tutte le loro interviste.

Cos’è per te l’ansia?

A: Per me l’ansia è una compagna di vita, conosciuta all’università, a dir il vero avrei preferito non conoscerla, ma mi ha permesso di indagare su me stessa, di sfidarmi e di scoprirmi.

Con l’ansia ogni giorno è una sfida. Non l’ho ancora superata, ma la ringrazio perché mi ha reso migliore rispetto a come ero dieci anni fa. Ora imparo a conviverci.

G: Immobilismo, incapacità di agire, di gestire o progettare il futuro, mancanza di evoluzione. È usare le mie energie per pensieri negativi ed averne poche per andare avanti, non è immobilismo in generale, direi più un immobilismo verso il positivo, discorso complicato, quando sono in preda all’ansia sono in realtà più attivo, ma non è un’attività che mi fa bene, è negatività.

A: Buffo, abbiamo dato due risposte completamente opposte.

DI QUESTI TEMPI

Di Isotta Orlando

Zona rossa.

Battuta d’arresto.

Una nuova riflessione sul tempo, perso.

Sul tempo speso.

Sulla forsennata corsa alla produttività e sul tempo libero.

Ho sempre detestato chi mi chiede cosa faccio nel mio tempo libero, un po’ perché non ne ho mai avuto molto, un po’perché mi è difficile stabilire un confine chiaro tra tempo libero e tempo “occupato”, mi sono sempre chiesta se le ore passate tra schiamazzi e ginocchia scoperte in pieno inverno e quelle spese a organizzare le attività fossero il mio tempo libero.

No. Non lo era, era semplicemente il mio tempo, tempo da spendere, da vivere e da condividere.

A volte mi rendo conto di riempire troppo il mio tempo, di saltare senza soluzione di continuità da una parte all’altra della città, da un lavoro all’altro, spesso cercando di lavorare anche lungo il tragitto. Me ne rendo davvero conto solo ora che è sono anni che faccio così, da quando prendevo il treno per Venezia ogni giorno e sfruttavo ogni briciolo di tempo vuoto per studiare mentre i miei pomeriggi diventavano sempre più un tetris d’impegni. Me ne rendo conto ora, mentre attraverso una Udine quasi deserta dettandomi questo articolo tra gli sguardi allibiti dei pochi passanti.

Nei momenti più intensi nella mia agenda tenevo uno spazio per fare la doccia, per essere sicura di avere il tempo di farla.

E così ho accolto quasi con gioia la notizia del primo lockdown, finalmente del tempo solo per me, per le mie idee, i miei progetti per tutto quello che avevo fino ad allora procrastinato (e per la tesi, sicuramente scriverò la tesi).

Non mi sono annoiata quel primo lockdown e non ho nemmeno scritto la tesi, ma mi sono resa conto, finito quel periodo, di aver accumulato energia non spesa, voglia di rimboccarmi le maniche, avevo voglia di Fare. Di scrollarmi dal tempo letargico, di scuotermi ed impegnarmi. E qui arrivano i cavalieri della ma storia, Liberi Educatori, che hanno dato ascolto a questa mia muta preghiera, siamo scoiattoli iperattivi, non stiamo mai con le mani in mano. La mia mente frulla sempre e le idee e i progetti diventano sempre più reali.

Assieme impariamo a dare il giusto tempo, il ritmo adatto, perché l’educazione è un insieme concatenato di azioni che hanno bisogno del momento adatto. Di tempo per accogliere e ascoltare, di tempo per scrivere e progettare e di tempo per fare, per dare risposte. È necessario dedicare ore o minuiti anche a riflettere, a rielaborare ciò che viene vissuto, mettendolo in ordine prima di assimilarlo.

È ormai mal comune lamentarsi del tempo perso, appioppando così un altro interessante aggettivo al ticchettare delle lancette. È vero il tempo è una risorsa, come tale va sfruttata, ma proprio come ogni risorsa non può e non deve essere spremuta al massimo, sembrerà incoerente con quello che ho detto fino ad ora, ma il mondo ha bisogno di tempo perso, di tempo per perdersi, di sana pigrizia, quella che fa venire le idee mentre i piedi camminano senza una meta prestabilita.

In un mondo che ci chiede di risucchiare tutte le risorse che ci circondano è un atto rivoluzionario cercare di perdere del tempo, di non metterlo a disposizione del mercato, di prendercelo per noi o per donarlo agli altri, ma quando ti ritrovi a passare ore scrollando qualche social media, senza darti nemmeno il tempo di assorbire gli stimoli che hai davanti inizi a chiederti come fare per non perderne più, demonizzando ogni minuto che ti sembra poco produttivo. Ma è solo un campanello d’allarme quel lasciar passare le ore di fronte ad uno schermo, se l’ascoltassimo capiremmo cosa vogliamo dai nostri minuti preziosi, ciò di cui abbiamo bisogno per riempire quei sessanta secondi di valore.

E mentre ci arrovelliamo sulle sfumature dei suoi significati il tempo, quel concetto intangibile e concreto, inesorabile scorre ed è già una nuova primavera.  

Una primavera chiusa in casa. Una primavera per trovare il nostro ritmo.

UNA STRANA PRIMAVERA


di Tommaso Congera

È appena squillato il telefono, per l’ennesima volta. Nulla di che, una “semplice” richiesta di informazioni su come gestirsi durante i giorni di quarantena. “Semplice”. Come se fosse ormai la cosa più naturale del mondo ricevere telefonate del genere. Come se si potesse accettare tranquillamente il dover essere condannati alla privazione, seppur temporanea, del diritto a vivere appieno, ed essere oltremodo dalla parte di coloro che devono “insegnare” a sopravvivere al meglio alla tempesta. Come se le nostre vite fossero ormai indissolubilmente legate e condannate a scorrere in questo modo, fra l’ennesima disinfezione di mani, la scelta della mascherina più adatta al tipo di servizio da svolgere, l’attenzione alla lotteria dei colori delle regioni, la cautela nell’approccio “al rischio”, eccetera eccetera.

Esattamente un anno fa. 365 giorni dalla fine dell’alba, per trovarsi buttati nella confusione di chiaroscuri di una trincea invisibile ma drammaticamente concreta, come invisibile e reale è il nemico che si combatte. Ad un volontario di Protezione Civile, il telefono squilla spesso durante trecentosessantacinque giorni: e la neve, ed il sale antighiaccio da spargere, e l’albero caduto, e l’alluvione…. In più i corsi di formazione, gli addestramenti di squadra, le esercitazioni… Chi sceglie di indossare la nostra divisa non ha tempo di annoiarsi, mai.

Ai volontari di Protezione Civile della squadra che ho il grande onore di gestire, in quest’anno il telefono è squillato spesso. Di giorno, di notte, di domenica, il giorno del loro compleanno, a Pasqua, a Natale. E hanno sempre risposto “presente”. Si sono messi la nostra divisa color puffo, e sono andati ovunque servisse. A portare la spesa ed i farmaci agli anziani reclusi in casa per proteggerli dal contagio e a coloro i quali, purtroppo, il “maledetto” lo avevano già beccato. A distribuire le mascherine alla popolazione per tutta la città, a ritirare ricette mediche nei vari ambulatori ed ospedali, a fare tutto quanto servisse pur di tentare, ognuno nel proprio piccolo, di far finire al più presto quella “strana primavera”.

Li ho visti stremati, dopo diciotto ore di servizio filate, ma sempre “con la schiena dritta”. Li ho visti insofferenti ed arrabbiati, in certi momenti, a causa di direttive poco chiare piovute dall’alto, le quali rischiavano di pregiudicare il buon risultato delle attività, ma si sono sempre fatti trovare al loro posto quando è stato richiesto. Qualcuno ha pianto qualche volta, trovandosi davanti a situazioni difficili di persone fragili, sole, abbandonate a sé stesse, a cui l’isolamento forzato causava dei veri e propri shock esistenziali ed emotivi difficilmente gestibili da personale non specializzato, ma non si è arreso a quel momentaneo sconforto, e si è adoperato in ogni maniera possibile per far fronte all’esigenza della situazione che aveva davanti. Qualcuno di questi miei compagni d’opera non c’è più.

 Formalmente, pomposamente, si direbbe “caduti nell’adempimento del proprio dovere”.

 Se li è portati via quel coso malefico. E sì, che sono caduti nell’adempimento del proprio dovere. Ma non di un dovere imposto per autorità, qualsiasi essa sia. Hanno sublimato, col loro sacrificio, quel dovere morale che anima tutte quelle persone di buona volontà, a prescindere dalla divisa che indossano e pure se non la indossano, quel sentimento di amore incondizionato che spinge a cercare di cambiare il mondo col proprio esempio, non con la propria opinione. Sono caduti, ma hanno vinto anche e soprattutto su di un egoismo generalizzato che troppo spesso impregna la nostra società, il quale, sarebbe ipocrita nasconderlo, alcune volte si è manifestato nel suo lato peggiore anche nella fase più cruenta della pandemia, anteponendo il proprio ego a qualsiasi altro sentimento di carità ed empatia umana. Ci hanno lasciato un grande esempio, che dobbiamo e vogliamo onorare, continuando il nostro servizio. Non è finita ancora, purtroppo.

Qualche giorno fa ho fatto un veloce calcolo delle ore di servizio impiegate insieme ai miei colleghi dall’inizio dell’Emergenza COVID-19. Con una media lavorativa di otto ore giornaliere (stima assolutamente per difetto), la calcolatrice dice 7.336 ore al 31/12/2020. Freddi numeri che non rendono l’idea di cosa sia stata, e di cosa ancora è, la faccenda COVID-19. Di cosa è significato ed ancora significa, per persone normali che hanno scelto di provare, al netto delle loro umane imperfezioni e limitazioni, a rendere questa società un po’ migliore, il ricordo di quella “strana primavera”. Di quel silenzio irreale scandito solo dagli altoparlanti che davano le comunicazioni alla cittadinanza e delle sirene delle ambulanze, della visione di quei formicai umani colorati da una bandiera arcobaleno a dirci che sarebbe andato tutto bene, di quelle notti passate a dare conforto a persone fuggite da casa in preda al panico. Di quella sensazione quasi di vergogna che si provava a poter girare liberamente svolgendo i nostri servizi, mentre il resto del mondo doveva stare chiuso.

Faber, “Via Del Campo”. “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.

Quanto letame in questa storia: quanta tristezza, dolore, sofferenza inaspettati ed incomprensibili, ma da questo letame il nostro fiore rinasce e cresce sempre più bello e forte. Quel fiore del volontario, quello spirito che ti brucia dentro e non ti fa voltare dall’altra parte quando arriva il tuo momento di fare, si nutre di questo. È un fiore che se lo curi con amore, ha la capacità di assorbire tutta l’energia negativa della situazione, per quanto drammatica possa essere, e mette radici nel cuore di chi ha la giusta disposizione d’animo.

Noi eravamo, fino alla fine di quell’alba di trecentosessantacinque giorni fa, quelli dell’albero caduto da tagliare, della neve da spalare, della cantina allagata da svuotare, nella peggiore delle ipotesi quelli che montavano le tende in zona terremotata. Siamo diventati parte integrante dell’esercito anti – COVID.

La maggior parte del nostro tempo lo spendiamo ancora a combattere quel piccolo bastardo.

 Vorremmo tanto tornare a fare solo gli addestramenti per svuotare cantine, a tagliare alberi caduti, a lanciarci la neve mentre spaliamo. Desideriamo tornare alla normalità, prima possibile. E per questo continuiamo a restare ancora nei chiaroscuri di questa trincea. Perchè siamo convinti che anche questa la vinciamo, per noi e per tutti, se tutti insieme lottiamo. Sarà dura, ma noi siamo testardi, e non molliamo di un passo. Noi restiamo al nostro posto. Né santi né eroi, cavalieri con molte macchie ed ancor più paure spesso e volentieri, ma fermi nel nostro proposito di dare il nostro contributo anche a questa causa. Vogliamo tornare a riveder le stelle.

Ovunque esse saranno.

Liberi.

Tra le sbarre

di Isotta Orlando

Ma cosa fa un’educatrice tra le sbarre?

L’ educatrice della Medicina Penitenziaria si occupa della gestione dei singoli casi e delle richieste fatte dai detenuti spesso inerenti la burocrazia. Da quando il cappellano del carcere ha dovuto per problemi di salute abbandonare il suo posto in prima linea, molta della burocrazia che seguiva viene ora gestita dall’educatrice.

Le richieste dei detenuti sono varie e vanno dall’ aiuto nella compilazione dei documenti per il riconoscimento dello stato di famiglia al rinnovo della patente, uno dei punti cruciali dell’educatore è il riuscire a fare da ponte tra uffici ed istituzioni esterne e l’istituzione del carcere.

Così nelle ore in cui l’educatrice è in carcere prende in consegna le varie richieste e una volta fuori inizia la coda infinita davanti agli sportelli dei diversi uffici, la litania di telefonate ai Comuni e ai patronati dove molto spesso appena scoprono che lavora per il carcere le richieste vengano rimpallate da una parte all’ altra senza che nessuno dia una risposta concreta alla problematica, venendo spesso trattata come se fosse lei stessa una carcerata.

Tra una fila alle poste per un vaglia da spedire a detenuti espulsi contenente il loro ultimo stipendio e una coda negli uffici del comune per il rinnovo della carta d’identità mi sono chiesta quale fosse la ragione di tutto questo prodigarsi, la risposta mi sarebbe arrivata poco dopo proprio durante i primi colloqui con i detenuti, l’ educatrice usava come una scusa per iniziare una relazione e creare un rapporto di fiducia tutta la burocrazia, e grazie a questa impostare un dialogo educativo basato sulle risposte concrete alle necessità dei detenuti e una volta ottenuta la fiducia riuscire a sviluppare anche argomenti più strettamente legati alla sua professione. E proprio così è riuscita ad agganciare diverse persone che anche una volta uscite dal carcere hanno mantenuto con lei il dialogo.

Non sempre però la sua funzione viene riconosciuta, soprattutto tra i detenuti italiani che hanno già una propria rete di supporto fuori è difficile per l’educatrice riuscire ad instaurare una relazione costruttiva.

Le difficoltà all’ interno del carcere sono molteplici e l’educatrice della Medicina Penitenziaria le conosce da vicino attraverso i colloqui svolti assieme ai detenuti che fidandosi di lei le raccontano le complicazioni della loro vita quotidiana.

Molte di queste derivano dal sovraffollamento, oltre alla gestione della quotidianità in spazi molto ristretti che incide spesso sull’agitazione e aggressività generale che culmina, soprattutto all’interno della sezione del giudiziario, in svariate risse e colluttazioni.

Legata al sovraffollamento c’è la difficoltà a trovare un lavoro, ci sono lunghi tempi di attesa per trovare un’occupazione all’ interno delle mura del penitenziario e i soldi sono una necessità per i carcerati sia per poter vivere dignitosamente all’ interno del carcere dove ogni extra costa molto più che all’ esterno ma anche per contribuire al mantenimento delle loro famiglie all’ esterno.

Il lavoro intramurario segue una turnazione che dovrebbe permettere a tutti i detenuti che ne fanno richiesta di avere un’occupazione ma questo non basta perché nei periodi di maggior affollamento le richieste sono molto maggiori rispetto alle mansioni proposte e solo pochi possono avere l’opportunità di svolgere un lavoro al di fuori delle mura del carcere attraverso le proposte di cooperative ed associazioni.

Tra le altre problematiche della vita carceraria è impossibile non citare gli episodi di autolesionismo, cardine dell’equipe settimanale assieme alla prevenzione suicidaria, questi eventi, pur non seguendo un andamento costante, ed essendo quindi imprevedibili, sono sempre presenti con diversi tassi di incidenza a seconda del periodo.

Nella maggior parte dei casi questi gesti, in genere tagli superficiali, sono più che altro dimostrativi, legati a domande dei detenuti come l’aumento della terapia o ad altre richieste difficili da esaudire, come il trasferimento in istituti più vicini alle famiglie. In ogni caso tutte le persone vengono attenzionate e messe sotto osservazione per un periodo perché anche se solamente dimostrativo o funzionale un gesto simile è comunque indice di profonda sofferenza ed incapacità di affrontare le difficoltà quotidiane.

Cazzotti sugli zigomi

di Isotta Orlando

Gestione del conflitto nelle relazioni interpersonali, così si chiama il progetto al quale ho potuto prendere parte durante il mio tirocinio svolto nell’ I.P.M. di Treviso.

Il progetto prende spunto da un’esperienza simile proposta ai detenuti adulti basata sui percorsi per uomini maltrattanti offerti dal CAM (centro di ascolto uomini maltrattanti, nato a Firenze nel 2009), l’obbiettivo principale è la presa di consapevolezza e la responsabilizzazione dei ragazzi detenuti nei confronti della violenza quotidianamente subita e/o agita e una volta raggiunta la consapevolezza dare degli strumenti per contrastarla senza ricorrervi.

Il progetto si è svolto per una decina di incontri all’ interno della palestra dell’ I.P.M. gli incontri avvenivano il venerdì mattina, il gruppo dei ragazzi era molto disomogeneo e le loro presenze discontinue sia nei singoli interventi (arrivavano ad attività iniziata o lasciavano il gruppo prima che fosse conclusa, a volte non per loro volontà ma perché costretti dagli agenti) sia per tutto il periodo del progetto ( talvolta non potevano partecipare alle attività per via dei divieti d’incontro con altri detenuti o perché altre attività si  sovrapponevano a quelle del gruppo).

Gli incontri avevano una struttura simile, dopo una piccola parte di saluti nel cortile interno, l’attività cominciava con una proposta legata alla sfera emozionale partendo dai ricordi, dalle emozioni suscitate da brani o musiche, o dalle simulate tra operatori si cercava di esaminare più a fondo le emozioni legate ai vissuti emersi dalla stimolazione, lasciando i ragazzi liberi di esprimere idee e opinioni cercando di indirizzare verso gli argomenti da trattare la discussione a volte molto animata ma accogliendo le provocazioni dei ragazzi.

Quando mi è stato presentato il progetto mi sono chiesta il perché di un nome tanto altisonante ma soprattutto perché nel titolo non fosse presentato chiaramente ed esplicitamente il concetto di violenza, nucleo dell’ intero progetto e filo conduttore dei diversi interventi. Così ho fatto conoscenza di alcuni taboo legati al linguaggio carcerario, infatti proprio in questo luogo dove gli atti di violenza sono spesso all’ordine del giorno questa parola viene pronunciata a fatica, sono molte le parole che non vengono nemmeno sussurrate in carcere, come se non pronunciare determinate parole permettesse di ignorare il concetto che definiscono.

Di fatto anche se la parola “violenza” non è mai stata pronunciata molto spesso nelle risposte date dai ragazzi alle provocazioni si poteva notare una forte aggressività, non era raro che azioni violente venissero descritte con ricchezza di particolari o mimate con veemenza.

Lavorare con il gruppo era spesso difficoltoso non solo per le problematiche dei ragazzi ma per la difficoltà di gestione e coordinazione con gli agenti della Polizia Penitenziaria che spesso, di fronte ai detenuti, rimproveravano i conduttori del gruppo appigliandosi ad inerzie, più di una volta hanno interrotto l’ attività sostenendo che non si potesse usare la cassa per la musica quando da parte degli educatori era stata fatta richiesta alla direzione del carcere, questi piccoli diverbi impedivano di fatto il mantenimento del focus sull’ attività inoltre molto spesso i ragazzi arrivavano in ritardo, se ne andavano prima o erano trattenuti nelle loro celle per diversi motivi. Tutto ciò rendeva il dialogo discontinuo e i pochi progressi si perdevano quando i giovani reclusi erano impossibilitati a partecipare. Spesso il gruppo era formato da più educatori e volontari che dai ragazzi è questo rendeva difficoltoso il dialogo doveva sembrare ai detenuti molto forzato e la presenza di molti adulti poteva essere percepita come intimidatoria da molti di loro oltre al fatto che potevano sentirsi più esposti e giudicati soprattutto quando mancavano le misure di paragone con gli altri.

Nonostante le molte difficoltà alcuni ragazzi hanno risposto molto bene alle provocazioni mettendosi in gioco e riportando pensieri sinceri grazie anche al clima di ascolto reciproco e fiducia creato degli educatori e dalle volontarie. Alcuni dei ragazzi hanno scavato nel profondo lasciandosi coinvolgere anche emotivamente cosa che mi ha molto stupita, e senza timore di venir giudicati hanno espresso i loro dolori, spesso però erano momenti fugaci quelli in cui parlavano a cuore aperto ed erano subito pronti a scherzare e ridere come se il peso delle loro parole fosse così difficile da sopportare da non permettere loro di soffermarsi a lungo su queste ferite. Vedere gli occhi di questi ragazzi all’ apparenza molto duri, cresciuti troppo in fretta e ricoperti di tatuaggi che si moltiplicavano di settimana in settimana, riempirsi di lacrime lascia esterrefatti e talvolta commossi, molto spesso mi sono trovata ad ascoltare con i brividi e le lacrime agli occhi per le riflessioni e i ricordi trasmessi. È un vero peccato non poter dare più ascolto, non creare un contenitore sicuro per i malesseri e i ricordi, per i racconti e i conflitti che hanno dentro di loro. Parlare in gruppo diventa catartico, una modalità di confronto quotidiana dove il problema di uno trova ascolto, comprensione e soluzioni o modi per fronteggiarlo nelle esperienze e nei vissuti condivisi.

La velocità con cui i ragazzi passavano da tristezza ad aggressività è stata esplicitata molto bene durante una simulata fatta durante l’ultimo incontro del progetto. Enzo, l’educatore, ha chiesto ad un ragazzo di fingere di essere in autobus sedendosi di fronte a lui, dopodiché ha iniziato a fissarlo intensamente a quel punto il ragazzo si è subito irrigidito e ha chiesto con tono minaccioso perché lo stesse fissando passando dopo poco ad aggressioni fisiche prima muovendosi a scatti sulla sedia e poi spintonando l’ educatore, che in quel momento si è inginocchiato di fronte scusandosi, l’ armatura violenta del ragazzo è subito crollata e ha abbracciato l’educatore lasciando tutti sorpresi. Purtroppo il tempo a nostra disposizione era quasi finito ed uno degli agenti ha portato via questo ragazzo prima che riuscissimo a rielaborare questo suo gesto assieme agli altri.

Cazzotti sugli zigomi. Il mio primo giorno in I.P.M.. Un altro gesto molto forte di cui siamo stati testimoni, durante l’ attività che stavamo svolgendo in pochi secondi la scena di fronte a noi è cambiata, due ragazzi sono entrati di corsa nella palestra dove stavamo rievocando ricordi felici della nostra infanzia, e tra il ricordo dei profumi di una casa che non c’è più in Pakistan e quello del calore di una stufa in Ucraina ci ha interrotto il rumore di passi concitati e ossa che si scontrano a gran velocità lasciando gli altri educatori ammutoliti, a dire il vero io non ho faticato ad assimilare quel gesto violento e a tornare senza scompormi all’ attività del gruppo, mi sono chiesta se sono ormai assuefatta da tutta la violenza che c’è nel mondo da non lasciarmi sconvolgere nemmeno quando accade a pochi centimetri da me, se è normale che dopo pochi minuti la mia vita fosse ripresa come se non fosse successo nulla e se questi pensieri vengano condivisi dalla maggioranza dei miei coetanei qui o se sono solo io ad essere pronta a vedere esplodere attorno a me la violenza tornando poco dopo alla tranquilla quotidianità.

Dopo questa esplosione siamo però riusciti a rielaborare anche con i ragazzi che partecipavano al gruppo, ma non quelli coinvolti nella colluttazione, quest’esperienza di cui siamo stati testimoni, rendendoci capaci di mettere subito in pratica alcuni strumenti per contrastare  la violenza tra cui appunto i ricordi delle cose positive aggrappandosi alle quali ci si può per un po’ dimenticare delle brutture e delle violenze che caratterizzano il quotidiano delle loro vite sia in carcere che fuori.

Inclusione sociale a basso impatto sulla comunità locale

Testimonianza di un’accoglienza possibile nel territorio della provincia di Bologna

12 gennaio 2021 di Simone Varesano

Oggi in Italia, affrontare discorsi sull’accoglienza di migranti e richiedenti asilo risulta quanto mai complesso, a causa di diversi fattori: primo fra tutti la persistente strumentazione politica che circonda la tematica, oggetto di discorsi connotati da forti componenti ideologiche che inficiano sulla qualità delle affermazioni e delle argomentazioni esternate dai protagonisti della politica tutta (senza distinzione di appartenenze politiche), dando vita a dibattiti sterili che a nulla portano se non alla costituzione di “tifoserie” contrapposte.

Viene quindi riportata la testimonianza di un’esperienza di tirocinio svolta presso una struttura SPRAR (il Sistema di Protezione per Richiedenti asilo e rifugiati, istituito ai sensi della legge 189/2002, ora sostituito con l’istituzione, ai sensi del DL. 113/2018, convertito in L. 132/2018, del Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri accompagnati, SIPROIMI) nel territorio della provincia di Bologna, più precisamente nel Comune di Galliera.

“Casa Galliera” nasce inizialmente come centro di accoglienza speciale (CAS) di seconda accoglienza, per volontà di Don Matteo Prosperini, parroco della Chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio a San Vincenzo di Galliera: avendo a disposizione le sale parrocchiali, l’obiettivo intrapreso è stato quello, appunto, di fornire un aiuto sostanziale a favore di richiedenti asilo e rifugiati provenienti dagli Stati dell’Africa subsahariana, arrivati in Italia seguendo le rotte migratorie del Mediterraneo. Per il funzionamento della struttura, il servizio è stato poi attuato attraverso la presa in carico del progetto da parte della cooperativa sociale “La Piccola Carovana”.

La particolarità di tale esperienza sta nella configurazione che è andata assumendo nel corso del suo sviluppo: in particolare, l’equipe di lavoro, costituita dal coordinatore Damiano Borin e gli operatori Roberto Bartilucci e Angela Assinelli dipendenti della cooperativa, insieme a Don Matteo, hanno attivato sin dalla costituzione dello SPRAR una modalità di lavoro reticolare, attraverso un coinvolgimento della comunità locale, in primis i fedeli della comunità parrocchiale. Hanno quindi avuto coscienza del possibile impatto del progetto sulla popolazione residente, considerandola quale destinataria stessa del loro agire professionale, oltre naturalmente ai beneficiari stranieri.

Pertanto, l’implementazione dell’accoglienza si è svolta su più piani, diversi ma tra loro interconnessi:

essere operatori SPRAR includeva un lavoro sul contesto globale in cui si andava operando, sapendo che la costruzione di legami solidi con gli enti comunali, la popolazione e i servizi costituisse un requisito fondamentale per la buona riuscita del progetto.

Sono state organizzate varie assemblee ove i residenti potevano esporre i loro dubbi, le loro perplessità e ricevere risposte adeguate dagli stessi operatori, i quali, a loro volta potevano presentare il loro lavoro, il progetto di intervento nella sua complessità, o anche solo rassicurare la popolazione in merito alle preoccupazioni che naturalmente emergono nel momento in cui si assiste ad un cambiamento che può incidere fortemente sul contesto di vita di un piccolo comune di circa 5000 abitanti.

A ciò si sono aggiunti momenti di pura convivialità, come cene collettive o anche feste di compleanno dove gli stessi beneficiari si sono messi a disposizione dei partecipanti, preparando cene etniche con pietanze tipiche dei loro paesi di origine: è stato grazie a questi momenti che è avvenuta la conoscenza diretta e quindi il raccordo tra ospitati e ospitanti,


dando vita e successivamente consolidando quello che si può definire il “buon rapporto di vicinato”;

non sono mancati esempi, infatti, in cui alcuni residenti appartenenti alla fascia più anziana della popolazione si sono affezionati ai beneficiari del progetto SPRAR, instaurando un rapporto di mutuo aiuto ove i secondi si rendevano disponibili nell’aiutare i primi a fare la spesa, e viceversa i primi invitassero a pranzo i secondi .

A ciò si è aggiunto un lavoro attento da parte degli operatori (anche grazie alla scelta di optare per un basso numero di beneficiari da accogliere, pari a dodici) sul percorso di realizzazione personale dei loro utenti: in un’ottica di collaborazione e co-costruzione dei progetti esistenziali di ciascuno, è stata possibile l’attivazione di tirocini retribuiti nell’ambito della manutenzione del verde pubblico, a partire però dalla partecipazione dei richiedenti asilo in progetti di volontariato, in modo che gli stessi maturassero un senso di cittadinanza attiva che li portasse innanzitutto a spendersi, in termini di attività e competenze da mettere in gioco, per la comunità ospitante. Da qui, è stato poi possibile sviluppare i loro percorsi in ottica anche più propriamente professionale, accompagnati dalla frequenza di tutti i beneficiari a corsi di lingua italiana presso il CPIA (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti), sito in un comune adiacente a Galliera.

Il lavoro svoltosi a “Casa Galliera”, dal raccordo con la comunità locale all’attenzione dei progetti esistenziali dei beneficiari, sicuramente non può considerarsi un caso esemplificativo di tutto il panorama nazionale dell’accoglienza:

può essere però utile nel dimostrare quanto questa non sia un obiettivo utopistico, quanto piuttosto un settore del sociale ancora acerbo,

soggetto sì a difficoltà, contraddizioni, carenze e inefficienze, ma allo stesso tempo vittima, ad oggi, di una modalità di approccio istituzionale di carattere ancora emergenziale (protrattosi ormai da oltre trent’anni), affidandosi quindi soltanto alla buona volontà dei singoli attori che vi si impegnano. Ciò non consente lo sviluppo di metodologie operative solide, approcci programmatori sistemici che consentirebbero un raggiungimento generalizzato dei risultati ottenuti a Galliera.

Le condizioni strutturali del mondo globalizzato, la contiua connessione tra le nazioni di tutti i continenti impongono tale approccio, affinchè l’immigrazione non sia più da considerarsi quale emergenza che determina oneri e spese, quanto piuttosto una reale opportunità di sviluppo, senza abbandonarsi a retoriche umanistiche sterili fini a sè stesse.

Riflessioni sparse in mezzo al caos

22 dicembre di Isotta Orlando

Siamo Educatori ma siamo anche esseri umani e ognuno di noi è stato toccato da questa pandemia in modo diverso, ci siamo chiesti che fare, abbiamo avuto paura e abbiamo cercato speranza, non sempre siamo riusciti a stare fermi quando intorno le cose sembravano peggiorare ogni giorno di più. Trovare lo spazio e il tempo per far guardare negli occhi l’Educatore e la Persona che convivono dentro di noi permette una riflessione, rende possibile trovare un equilibrio tra la dimensione emotiva e quella professionale. E non sempre è facile mettere d’accordo pancia, cuore e cervello, ma dobbiamo farli dialogare per capire noi stessi prima di entrare in relazione con gli altri.

Tre voci, simili e diverse hanno fatto capolino nel dialogo e ve le riportiamo per farvi capire come ognuno di noi abbia guardato il mondo in modo diverso in questi mesi.

C:

Cosa succede quando il mostro esce da sotto al letto?

Tutti sanno che c’è. Qualcuno lo ignora, qualcuno ne parla, nessuno lo sconfigge, è una presenza costante.

Per tutta la vita cerchi di prepararti al momento in cui salterà fuori.  

Torce, canzoni, magari una mazza da baseball accanto al comodino, ma è una paura primordiale. Abbiamo ereditato la storia del mostro sotto al letto, la Madre di tutte le paure, dagli uomini primitivi sotto al cui albero giravano affamate le fiere, saltavano fuori di notte ringhianti e con gli occhi brillanti.

Quella era una paura fondata. Le zanne erano veramente pochi metri sotto al ramo, gli artigli grattavano davvero contro il tronco e le bestie erano davvero affamate.

Facendosi un po’ di coraggio si può andare a vedere sotto al letto, ci sarà qualche batuffolo di polvere, forse un calzino dimenticato, ma sicuramente non ci sarà un mostro. Allora dov’è?  Nulla di più facile. È dentro di noi. Allora come si combatte?

Da un po’ di tempo mi ripeto una filastrocca, che forse sta stancando anche me, “voglio essere la migliore versione di me stessa” questo vuol dire nel concreto essere determinata, smettere di procrastinare, affrontare le paure.

Va tutto bene, finchè il mostro non esce da sotto al letto.

Tamponi positivi, sia il mio che quello di mia mamma. Io asintomatica, mamma allettata con febbre e tosse, in una casa di 60 metri quadri e un bagno. Sento il peso della responsabilità e non riesco a tirarmi su. Ce la faccio per poco, ma poi crollo di nuovo nella realtà della situazione.  Fin dove può arrivare la sopportazione? Non è un dolore fisico il mio, “se è intenso è di breve durata”.  È più subdolo “se dura a lungo è sopportabile”. Lo senti nelle ossa, incurva la schiena, abbassa gli occhi, i piedi sono pesanti e strisciano a terra. È un momento difficile e ai momenti di preoccupazione in cui si igienizza qualsiasi superficie, si alternano i momenti di paura.

Il mostro è uscito da sotto al letto.

Per tutta la vita cerchi di prepararti al momento in cui salterà fuori,

ma non sarai mai pronto.

I:

Il Covid è sempre stato di casa, già a gennaio quando mamma ha iniziato a ricoverare giovani con strane polmoniti, sebbene nessuno le desse ascolto e le linee di prevenzione fossero inesistenti. Poi è entrato con fermezza in casa, era inevitabile, un mese senza varcare il cancello, come tutti gli altri ma con la preoccupazione che quel virus arrivasse ai polmoni malmessi di papà, con mamma chiusa nella sua camera, con guanti, mascherine e candeggina che sono diventati routine.

E notizie spesso contrastanti, confusione e forse anche paura, mi aggrappavo a piccoli obiettivi, cercavo soluzioni creative alla noia, guardavo il futuro annebbiarsi sempre di più, spesso mi trovavo in lacrime senza sapere perché. Ho smesso di aprire i giornali e i social, mi sono chiusa in una bolla che scoppiava ogni volta che arrivavo a tavola, Zaia ci ha fatto compagnia ad ogni pasto, con catastrofici numeri e misure per arginarli, non oso immaginare cosa abbiano immaginato i bambini che hanno visto disgregarsi il mondo attorno a loro, io ho pensato che il mondo stesse definitivamente andando a rotoli.

Senza via d’uscita,

così si sentiva la mia migliore amica, ed io impotente la imploravo di resistere un giorno in più, sentendomi inutile dall’altro lato del telefono, cercando di convincerla a chiedere aiuto a qualcuno che oltre alla professionalità potesse avere quell’oggettività che a me mancava. Mi chiedevo se i centri di salute mentale avrebbero avuto risorse per rispondere a tutti quelli che come lei si sentivano mancare la terra sotto i piedi, immaginavo l’aggravarsi di diverse problematiche e nel mio cervello ormai deviato da deformazione professionale mi chiedevo fino a dove la tutela della salute fisica potesse incidere sulla salute mentale.

Poi, finalmente, l’estate, e lo sforzo di tornare ad una normalità che sembrava come nascondere la polvere sotto il tappeto, con la consapevolezza che sarebbe uscito ai primi freddi, che non avremmo dovuto dimenticarcene così in fretta. Le continue raccomandazioni di mamma si trovava ancora di fronte a persone ammalate nonostante il mondo fosse tornato in vita.

E poi di nuovo chiusure, regole, igienizzante e tamponi. E Paura, con la P maiuscola, perché non si riesce a vedere la fine, perché ci aggrappiamo a piccole speranze quotidianamente disattese, perché ogni giorno il nostro futuro si fa meno definito, perché nonostante gli sforzi di ognuno sembra che il mondo per come lo conosciamo non possa tornare come prima. E invidio tutti quelli che riescono ad avere ancora speranza nel cuore, sarà che mi circondo di cinismo ma non riesco a provare a me stessa il senso di ottimismo che una volta era ben radicato in me.

Ci è passato troppo vicino per poterlo ignorare, ma ogni giorno sorrido ai bambini da sotto la mascherina, cerco di dargli la massima libertà ricordandogli però le nuove regole che incidono sui i loro corpicini e sulle loro menti in costruzione.

ogni giorno sorrido ai bambini da sotto la mascherina, cerco di dargli la massima libertà ricordandogli però le nuove regole che incidono sui i loro corpicini e sulle loro menti in costruzione.

Come saranno questi adulti di domani, alcuni di loro, si vede già, portano dentro ansie enormi, grandi come case che lasciano noi adulti atterriti e quasi incapaci di fronteggiarle.

Dobbiamo imparare un nuovo modo di relazionarci; dobbiamo ricominciare da capo e nel nostro lavoro di cura e relazione dove spesso un tocco vale più di mille parole, dove un abbraccio può aggiustare, dove le strette di mano, gli sguardi e le rughe del viso aiutano chi ci sta di fronte a fidarsi di noi;  dobbiamo trovare un linguaggio nuovo, un nuovo modo di prenderci cura.

Non è facile ridimensionare le proprie azioni, sentirsi bloccati da nuove regole, sapere quanto queste intralcino ancora di più la vita già complicata di chi incontriamo nel nostro lavoro. Dobbiamo essere forti per loro, poi torniamo a casa, chiudiamo la porta e ci sentiamo minuscoli ma siamo pronti a lavare via le preoccupazioni, ad attuare strategie per non perderci in vicoli ciechi e bui per poter tornare a lavoro con il sorriso e la speranza il giorno dopo.  

A:

L’Educatore è la figura di riferimento proprio per le competenze nell’accogliere i problemi della persona e guidarla in pratica ad una risposta che sia personale e adeguata.

Gli Psicologi fanno altro, si occupano di identificare i meccanismi per cui una psiche funziona dando quelle risposte. Gli psicoterapeuti supportano la stabilità psichica, non la quotidianità. I medici identificano e gestiscono le patologie mentali che hanno bisogno di farmaci o terapie mediche, chiaramente

l’educatore non può lavorare da solo, ma non confondiamo i compiti e ricordiamoci che siamo noi che diamo le risposte quotidiane, pratiche,

maledette ma benedette per le persone che ancor prima di identificare il meccanismo che sta dietro hanno bisogno di una risposta pratica. Non facciamo nulla da soli, ma possiamo fare tantissimo, anche “solo” raccogliere le tensioni e dar loro un impianto logico da poter affrontare.