Ho ancora i brividi se ci
penso: Io, lui, Disneyland e una proposta di matrimonio; cosa si può desiderare
di più? D’altronde è il sogno di ogni bambina.
Poi le “classiche” cose:
l’emozione di parlarne con i parenti, organizzare la cerimonia, vedere l’abito
da sposa, la sensazione di sentirsi realizzati, di avere finalmente la vita in
pugno.
Ti guardi allo specchio e
dici “sto in una favola”, ma non sempre le favole sono a lieto fine, giusto?!
Iniziarono i preparativi,
e man mano che progredivano le discussioni su ciò che andava bene o meno si
fecero sempre meno sporadiche, dapprima una volta ogni tanto, poi qualche volta
durante la settimana ed infine ci trovammo a litigare ogni giorno su tutto.
Mi sentivo un po’frustrata,
non capivo cosa fosse cambiato, cosa ci facesse ora mettere in discussione
tutto.
Le discussioni
continuavano ogni singolo giorno per ogni singola cosa, erano più le volte che
piangevo di quelle in cui sorridevo.
Finché non sono arrivati
anche i primi insulti; inutili ed ignobili, non meritano nemmeno di essere riportati,
quello che mi fa star male tutt’ora, anche a distanza di un anno e mezzo, è
“non vali niente”.
Mi sentivo così piccola e inutile, alle volte, senza rendermene conto mi rannicchiavo nell’angolo del divano con le ginocchia al petto e lo sguardo perso nel vuoto.
Nell’ultimo periodo
ricordo che mi svegliavo piangendo e mi chiedevo dove stessi sbagliando o cosa
facessi di male, cosa gli mancasse, cosa meritava. Questo “mal stare” aveva
ripercussioni anche a livello lavorativo: arrivavo a lavoro cercando di
nascondere tutto e per un periodo relativamente lungo ci sono anche riuscita,
però, mi resi conto che non ero motivata, non avevo idee per nuove attività,
avevo la mente completamente vuota; nella testa mi riecheggiavano solo i suoi
insulti e le sue offese.
Un giorno decisi di
cambiare atteggiamento: quando c’era una discussione scappavo, uscivo molto di
più pur sapendo che a lui dava fastidio (era un ragazzo molto geloso e
possessivo/ossessivo), gli rispondevo a tono, finivo di lavorare e tardavo nel tornare
a casa per non trovarlo; queste “piccole” cose mi permettevano di tirare un
sospiro di sollievo e capire cosa fare, cercavo di comprendere cosa provassi per
di lui.
Una sera uscii e tornai a
casa tardi, lui mi stava aspettando, ovviamente, e mi chiese dove fossi stata,
con chi fossi. Potete immaginare le domande che una persona gelosa e possessiva
fa in questi frangenti.
Me lo ricordo benissimo,
in ogni minuscolo dettaglio, seduta sul letto, a mezzanotte. Iniziò a
discutere, io non ne avevo più le forze; volarono insulti e offese, io, lo
sguardo fisso nel vuoto, lo lasciavo fare, ad un certo punto spinta da una
forza che non immaginavo di possedere, mi alzai e decisi di infilare in uno
zaino pigiama e spazzolino, giusto per passare la notte fuori, non sapevo dove
andare, ma DOVEVO andare via.
Gli insulti si fecero più
pesanti, prese le mie chiavi e mi chiuse dentro casa con lui; nascose le sue
chiavi, in quell’attimo ebbi davvero paura, subdola, paralizzante paura,
iniziarono a vorticarmi nella testa mille altri interrogativi, mi chiedevo se
sarebbe stato in grado di colpirmi, mi domandavo se sarei riuscita a trovare un
modo per uscire da lì. Mi fiondai verso di lui per prendergli le chiavi, senza
però riuscirci, iniziò a spingermi, io mi sentivo impotente davanti alla
persona che avrebbe dovuto proteggermi, davanti al mio futuro marito.
Presa dal panico chiamai l’unica
persona che sapeva tutto, la mia migliore amica; volevo chiamare i carabinieri,
avrei dovuto, non so per quale motivo non l’abbia fatto e, ad oggi, credo di
aver fatto la scelta sbagliata.
Dopo questo episodio mi servì
un’altra settimana prima di uscire da quella che chiamavo “casa
nostra”. Per mesi non ho mangiato, ero angosciata, sapevo che lui mi controllava
e conosceva ogni mio spostamento.
Ho avuto la fortuna di
avere gli amici che mi hanno aiutato molto, mi hanno supportato e difeso.
Oggi, dopo un anno e
mezzo, lotto ancora con questo demone che mi porto dentro, mi ritengo molto
fortunata perché alla fine non mi successo nulla di eccessivo, ma ho avuto
molta paura, e seppur invisibile, questa ha lasciato su me una cicatrice. Ci sto
ancora lavorando, con l’aiuto di una psicologa, perché chi come me si è siamo
trovato in una situazione simile sa come sia semplice convincersi che sia colpa
nostra, che le reazioni esagerate dipendano da noi, da qualche nostro sbaglio,
ma non è così.
Da quando ho iniziato a
guardare la vita con una prospettiva diversa ho capito improvvisamente dopo due
anni, che non sono sbagliata come lui voleva farmi credere.
Generalmente, la comunicazione non violenta, si può definire come una forma comunicativa strategica, applicabile in contesti personali, sociali e lavorativi, utile a mediare e poi a risolvere conflitti in corso, utilizzando varie modalità non riconducibili alla violenza fisica e verbale, scegliendo di conseguenza la via della NON VIOLENZA, anche se, come vedremo più avanti, è molto di più di questo.
La non violenza, consiste nell’adottare un atteggiamento positivo che sostituisce gli atteggiamenti negativi che delle volte sovrastano noi stessi e la situazione.
Certe volte, quando ci si trova in situazioni
che implicano dei conflitti, che sia in contesti lavorativi o personali, la
tendenza è agire in modo egoistico, pensando dunque esclusivamente all’agire in
funzione dei propri bisogni e necessità, credendo che questa sia la scelta
migliore da fare, per sé stessi e per risolvere il conflitto.
Ora, provate a immaginare questa situazione:
Siete un direttore/direttrice di un’orchestra sinfonica e dovete far sì che
ogni strumento suoni le note giuste per creare la sinfonia. Cosa succederebbe
se, ogni musicista seguisse il proprio volere e cambiasse le note, suonando
quel che più lo aggrada? Esatto, la melodia sarebbe compromessa.
In situazione di conflitto dunque, è necessario
smettere di pensare in modo individualistico, mettendo in pratica i precetti
della comunicazione non violenta, che aiuteranno a migliorare noi stessi e la
società in generale.
Marshall B. Rosemberg: I precetti fondamentali della comunicazione non violenta.
Quando si parla di comunicazione non violenta, il primo professionista a cui si fa riferimento è Marshall B. Rosemberg: è stato un importante psicologo clinico, direttore dei servizi educativi del The center for nonviolent communication, un’organizzazione internazionale che offre ancora oggi dopo la sua morte nel 2015, seminari sulla comunicazione non violenta.
Il testo più importante scritto da Marshall sulla comunicazione non violenta è:
“Le parole sono finestre, oppure muri- introduzione alla comunicazione non violenta.”
In questo volume, Marshall sostiene che una
comunicazione di qualità, con se stessi e con gli altri, è ad oggi, una delle
competenze più preziose.
La comunicazione non violenta si basa su
abilità di linguaggio e di comunicazione che rafforzano la capacità di rimanere umani, anche in
condizioni difficili.
Il suo scopo principale è quello di far ricordare che gli uomini sono esseri sociali, fatti per relazionarsi tra loro, aiutando così a vivere in un modo che è poi la manifestazione concreta di questa necessità.
La comunicazione non violenta ci guida nel
ripensare le modalità mediante cui si esprime sé stessi senza dimenticare di
ascoltare gli altri: ci si esprime liberamente rispettando allo stesso tempo
gli altri, con attenzione ed empatia, ascoltando i nostri bisogni profondi,
uniti a quelli dei nostri interlocutori percependo in nuovo modo la relazione.
Secondo Rosenberg, la comunicazione non violenta promuove l’ascolto e non lo scontro: il rispetto, attenzione ed empatia generano un bisogno reciproco di dare amore non pensando alla violenza o ad uno scontro verbale e fisico.
Non si parla dunque esclusivamente di un
processo di comunicazione, o di un linguaggio di empatia, la comunicazione non
violenta è di più: essa sollecita continuamente a concentrare la nostra
attenzione su un piano diverso, dove è più probabile che si ottenga quel che si
sta cercando.
Rosenberg intende la comunicazione non violenta come un modo per focalizzare la propria attenzione in modo tale che si accenda la luce della consapevolezza sui luoghi che hanno il potenziale di portare esattamente a quello che si sta cercando in quel momento; usando le parole stesse dello psicologo:
“Quello che desidero nella mia vita è l’empatia, uno scambio continuo tra me e gli altri basato su un reciproco darsi dal cuore”.
Come applicare la
comunicazione non violenta: le quattro componenti principali.
Secondo Rosenbeg, per applicare correttamente
la comunicazione non violenta e per arrivare ad un desiderio reciproco di “dare
dal cuore”, si deve focalizzare la propria consapevolezza su quattro aree
specifiche che si identificano come le quattro componenti principali della
comunicazione non violenta.
Sono:
OSSERVAZIONE: In primis, occorre osservare una data situazione o persona senza introdurre alcun giudizio o valutazione. Si dice semplicemente quello che gli altri stanno eseguendo in quel dato momento senza introdurre commenti personali.
SENTIMENTI: Solo in questo secondo momento si afferma quel che l’osservazione ha scaturito a livello personale, come ci si è sentiti osservando questa situazione, se tristi, felici o anche spaventati.
BISOGNI: Nel terzo passaggio, si verbalizzano i bisogni personali emersi collegandoli ai sentimenti e alle emozioni precedentemente descritte.
RICHIESTE: Nel quarto e ultimo passaggio si dichiara e specifica la propria richiesta, ossia quel che si vuole dall’altra, o altre persone coinvolte, un elemento che potrebbe arricchire la propria vita.
Parte della comunicazione non violenta,
consiste nell’esprimere queste quattro componenti in modo chiaro, verbalmente o
in forma scritta.
Un secondo aspetto della comunicazione non
violenta riguarda invece la ricezione delle medesime informazioni da parte
delle altre persone coinvolte nel processo comunicativo: tutti devono seguire
correttamente il procedimento, così che si abbia un’osservazione comune della
situazione, un’espressione sincrona dei propri sentimenti e successivamente dei
propri bisogni e delle richieste personali, arrivando a comprendere come
risolvere un eventuale conflitto in corso e alle modalità con cui si può
arricchire a vicenda la propria vita.
E’ importante sottolineare che, tutte le
persone coinvolte in questo processo debbano esprimere onestà nella pratica dei
quattro componenti ( ad esempio una persona dovrà essere onesta nella
verbalizzazione dei propri sentimenti, altrimenti sarà introdotto nel processo
comunicativo una componente falsata) e successivamente ricevere con empatia
tutte le informazioni ricevute con il procedimento.
La comunicazione violenta:
tutto quello che non si deve fare.
L’empatia, è una condizione umana
importantissima, che assume la stessa importanza anche nel campo della
comunicazione non violenta. Occorre dunque preservarla, riconoscendo a pieno,
per poi evitare di utilizzarle, forme comunicative tossiche per l’empatia
stessa e per la comunicazione non violenta.
Secondo Rosemberg, queste forme di linguaggio e
di comunicazione sbagliate sono:
I GIUDIZI MORALISTICI: Questo tipo di comunicazione aliena dalla vita, perché i giudizi moralistici, perché essi implicano il torto o la cattiveria di quelle persone che non agiscono in armonia con i nostri valori.
Ad esempio, se si dice ad un’ altra persona “Il tuo problema è che sei troppo pigro, non hai voglia di fare niente” la si incolpa, etichetta, insulta, la si critica e in modo implicito la si mette a paragone con altri. Tutti questi giudizi messi attivati faranno sì che la forma di comunicazione adottata non potrà essere non violenta, perché i precetti fondamentali di quest’ultima non sono stati eseguiti, tanto meno l’empatia non potrà essere messa in pratica da una persona che si è sentita giudicata in questo modo.
FARE
PARAGONI: Un’altra forma di giudizio è l’uso di paragoni. Non appena si
comincia ad equiparare una persona ad un’altra, è quasi certo che una delle due
o entrambi saranno infelici.
Facciamo un esempio: Un bambino della scuola
materna che ha avuto comportamenti non adeguati al contesto, La maestra, lo
riprende a fine giornata davanti a tutti la classe dicendo che lui non è stato
un bravo bambino, paragonando lui agli altri compagni che invece hanno seguito
le regole.
Quali potranno mai essere le conseguenze di
queste affermazioni della maestra? Certamente il bambino si sentirà mortificato
e giudicato negativamente, si sentirà sbagliato rispetto ai compagni di classe.
Anche in questo caso, è ben chiaro che e i precetti della comunicazione non violenta
siano venuti meno e che una risposta empatica non sia eseguibile in date
circostanze.
NEGAZIONE
DELLE PROPRIE RESPONSABILITA’: Un altro tipo di comunicazione che aliena dalla
vita è la negazione delle responsabilità. Questa offusca la consapevolezza del
fatto che ciascuno sia responsabili dei propri pensieri, sentimenti e azioni.
Un esempio eclatante è quel che si verifica quando si pronuncia la frase: “ Ci
sono cose che si DEVONO FARE, è così e basta”. Ecco, con quel “ SI DEVE”, si
oscura la responsabilità personale delle proprie azioni, perché ci si sente obbligati
nell’eseguire un data azione, togliendo anche la libertà di pensiero e di
libera scelta riguardo alla possibilità di compierla o no.
Anche questa, è identificabile come una forma
violenta di comunicazione, alla quale occorre privilegiare un linguaggio che implica
una possibilità di scelta e in cui si è responsabili delle proprie scelte.
Conclusione:
In questa breve panoramica della comunicazione
non violenta, è emerso che essa non obbliga ad essere completamente obiettivi e
ad abolire ogni giudizio, chiede di separare le osservazioni dalle valutazioni
personali ( questo è un passaggio fondamentale per chi svolge un ruolo
educativo).
La comunicazione non violenta è un linguaggio
di processo che scoraggia, scrive Rosenberg, le generalizzazioni statistiche e
ci invita a fondare le valutazioni su osservazioni specifiche per quanto
riguarda il tempo e il contesto.
Tutto quello che è stato scritto fino ad ora,
si riassume in queste meravigliose parole di Rosemberg:
Posso sopportare che tu mi dica
Quello che ho fatto e quello che non ho fatto.
Posso sopportare le tue interpretazioni.
Ma ti prego di non confondere le due cose.
Se vuoi complicare qualsiasi questione
Ti posso dire come puoi fare:
Confondi quello che faccio
Con il modo in cui tu reagisci.
Dimmi che sei frustrato
Per i lavori che non porto a termine
Ma chiamarmi irresponsabile non è certo un modo per motivarmi.
E dimmi che ti senti triste
Quando dico di no alle tue proposte,
Ma dirmi che sono freddo e insensibile
Non aumenterà le tue possibilità.
Sì, posso sopportare che tu mi dicaQuello che ho fatto e che non ho fatto.
E posso sopportare le tue interpretazioni.
Ma ti prego, non mescolare le due cose.
Quello che ho fatto e quello che non ho fatto.
Posso sopportare le tue interpretazioni.
Ma ti prego di non confondere le due cose.
Non mescolate le due cose ma osservate e non
valutate.
BIBLIOGRAFIA: Rosemberg B. Marshall; Le parole sono finestre, oppure muri.
Introduzione alla comunicazione non violenta. ;Esserci edizioni 2020.
L’IMPORTANZA DELLA STIMOLAZIONE LA FANTASIA E DELLA
CAPACITA’ CREATIVA NELL’INFANZIA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS.
Premessa:
Con il termine fantasia, s’intende la capacità
di rappresentarsi enti, situazioni e figure non presenti a livello censitivo; è
un’abilità creatrice collegata strettamente al pensiero.
Con la fantasia, il bambino riesce a capire avvenimenti, fatti e circostanze della vita quotidiana trasformando la realtà in avvenimenti immaginari piacevoli.
Attraverso la fantasia, si sperimenta il
processo emozionale, cognitivo che allena il problem solving: la capacità di
analizzare situazioni problematiche per individuare e mettere in atto la
soluzione migliore.
I giochi, in questo frangente, contribuiscono
allo sviluppo emotivo del bambino, e la creatività in essi può esprimersi in
diversi modi, perché essa è da considerare come un vero e proprio modo di pensare
e può essere allenata, sviluppata e stimolata anche dall’ambiente.
Coltivare l’immaginazione come si farebbe con una
bellissima piantagione di girasoli, equivale ad aiutare il bambino a sviluppare
una flessibilità mentale che gli sarà utile per diventare un adulto
emotivamente consapevole di sé, capace di comunicare le proprie emozioni e
sensazioni.
Questi fattori, già importanti a priori, assumono un nuovo fondamentale ruolo nella situazione odierna, perché
i bambini stanno imparando nuove modalità di gioco e di relazione “imposte” da regole e vere e proprie leggi non violabili: quelle legate alla sicurezza e alla salute di tutti.
Oltre dunque a un importante aiuto psicologico
ove richiesto per aiutare in bambini con evidenti difficoltà, ansia da
prestazione nelle attività, difficoltà nel sonno, rifiuto parziale del cibo,
ansie legate alla cura di sé; occorre trovare dalla pedagogia dall’ educazione
tutto l’aiuto possibile, strutturando attività, laboratori, progetti incentrati
su obiettivi che aiutino i bambini a imparare a superare le loro paure e a convivere
la situazione odierna, scoprendo, o in alcuni casi, riscoprendo una facoltà
importante: la fantasia.
Il metodo
Bruno Munari: la creatività come antidoto all’apatia.
Per aiutare la stimolazione della fantasia e della capacità immaginativa nel bambino, si comincia creando setting in cui i bambini siano liberi di creare, giocare e divertirsi liberamente, uno spazio sicuro dove potersi esprimere liberamente, le idee non vengono proposte dall’educatore, esse nascono dalla sperimentazione secondo il principio didattico “ non dire cosa fare ma come”.
In questo modo i bambini imparano a diventare indipendenti risolvendo in autonomia i problemi.
Questo precetto, è una delle basi del metodo di
Bruno Munari, grande designer, artista e pedagogo intuitivo.
Per lui, il laboratorio è un luogo di
creatività e conoscenza, di sperimentazione e scoperta, ma soprattutto di
autoapprendimento attraverso il gioco: è in sostanza il setting dal “fare per
capire” in cui si costruisce il sapere. E’ luogo d’incontro educativo,
formazione e di collaborazione tra i bambini stessi e l’educatore, in cui si
sviluppa la capacità di osservare con le mani e con gli occhi per imparare a
guardare la realtà.
Un
metodo basato sul fare dunque, nel quale tuttavia il bambino deve esercitare quattro facoltà, che secondo Munari,
permettono di sviluppare concretamente la capacità creativa. Esse sono:
Fantasia: facoltà libera e indipendente che permette di
pensare anche alle cose più assurde e impossibili, a quello che non c’era e che
era ritenuto irrealizzabile.
Invenzione: facoltà che permette la realizzazione di un
qualcosa di utilità pratica all’uomo accantonando il lato estetico (sostanza e
praticità versus forma).
Immaginazione: Capacità di rendere visibile quel che la
fantasia, invenzione e creatività pensano.
Creatività: Facoltà che permette di realizzare tutto quel
che prima non c’era in modo essenziale e globale. E’ un’applicazione della
fantasia che deve tenere conto degli elementi concreti dei problemi della sua
realizzazione. Nella realizzazione del prodotto, è tenuto conto dell’estetica.
Per stimolare la creatività intesa come unione
delle facoltà di fantasia ed invenzione, è necessario esercitare tutte queste,
così che si possano creare relazioni e connessioni tra fantasia, conoscenza e
realtà, relazioni inedite tra cose che esistono già e cose che non si vedono ma
che sono immaginabili.
Così, la creatività è una facoltà fondamentale per il ben vivere, ben prima che i bambini e poi negli adulti, per questo deve essere esercitata nell’infanzia.
Per Munari, un adulto senza creatività, è una
persona incompiuta e omologata, come un ingranaggio di una catena che si muove
e compie azioni esattamente come i suoi simili prima di lui.
Un adulto non creativo, sarà dunque incapace di
risolvere ed affrontare i problemi in autonomia, arrivando a chiedere ad altri
un aiuto per farlo.
Creatività
e plurisensorialismo: come funziona un laboratorio Bruno Munari
Un laboratorio Bruno Munari è un luogo di
creatività e conoscenza, dove si gioca con l’arte e nel quale si stimola la
creatività e progettualità del bambino.
La creatività di cui si parla è una qualità speciale dell’intelligenza, è ricerca dell’essenziale. Munari spiega che, così come l’artista è in costante ricerca delle condizioni che favoriscono la fantasia e la creatività, occorre fare in modo che il bambino memorizzi più dati possibili: la fantasia infatti nasce da relazioni che il pensiero stabilisce tra le cose che conosce. Bisogna aiutare i bambini a rimuovere gli stereotipi, stimolando e ampliando la loro conoscenza plurisensoriale..
Gli operatori, durante il laboratorio non parlano
quasi mai, piuttosto “fanno“, stimolando la curiosità dei bambini che subito
vogliono provare a fare: ed ecco che il bambino imita l’adulto.
Compito degli operatori, dice Munari è:
Dare ai bambini tutte le informazioni di tipo tecnico, sul come si fa a fare, senza dare loro temi già predisposti dagli adulti.
Non bisogna dare ai bambini un metodo, perché è giusto che si creino loro un proprio modo di fare. L’adulto può invece creare un setting ricco e stimolante, con ad esempio cartelloni colorati che forniscano informazioni visive relative all’argomento che s’intende esplorare. Un adulto che diventa una sorta di regista per guidare i suoi attori.
La comunicazione con i bambini deve essere
ricca di indicazioni precise: invece di tante spiegazioni è preferibile
utilizzare esempi visivi e con “azioni gioco”; con il gioco, dice Munari, il
bambino partecipa globalmente, mentre se ascolta si distrae perché continua a
pensare ad altre cose.
Il gioco strutturato poi, ha delle regole da
rispettare, dice Munari: “ Ogni gioco ha le sue regole, il mio metodo insegna a
rispettarle ma anche a trasgredirle permettendo così alle varie personalità di
realizzare le loro varianti e quindi a fare agire le varie creatività”.
Uno dei punti di partenza per lo sviluppo del
pensiero creativo è dato dalla consapevolezza della conoscenza plurisensoriale
insita nei più piccoli: i bambini sono sperimentatori innati che cercano ed
esplorano, sperimentano attraverso il gioco stesso, imparano e memorizzano.
Questi principi sono alla base della missione di Munari: progettare strumenti di gioco capaci d’aiutare i bambini a non smarrire il loro originario senso di curiosità verso il mondo.
Il sogno di Munari, riguarda la creatività
diffusa come antidoto all’apatia sociale, che oggi potrebbe riguardare le nuove
difficoltà dei bambini a ritornare al gioco e alla vita sociale di prima,
promuovendo strumenti e giochi capaci di aiutare i bambini a non smarrire il
loro originario senso di curiosità verso il mondo.
E l’educatore, per fare questo, ma ancor prima
l’adulto, deve secondo Munari, far permanere in sé: la curiosità di conoscere,
il piacere di capire e la passione di comunicare e condividere.
Occorre aiutare i bambini a non perdere la loro
curiosità verso il mondo, non dicendogli cosa fare ma come farlo, stimolando
ancora una volta la loro sperimentazione e voglia di conoscere, anche ad un
metro di distanza e con una mascherina indosso.
Bibliografia:
Munari Bruno., Fantasia,Editore Laterza.,2017
Beba Restelli., Giocare con tatto., edizioni
Franco Angeli, Le Comete., 2002
La scrittura creativa come strumento nella professione dell’educatore
L’ educatore professionale scrive, lo fa di mestiere, relazioni e diari di bordo, progetti e cartelle cliniche. Batte su una tastiera e tiene in mano una penna per un sacco di tempo, è uno degli strumenti che ha. Ma c’è una sfumatura di questo mezzo che sconfina dal nostro essere oggettivi e professionali che ci è utile però per comprendere la parola empatia, spesso abusata e ripetuta talmente spesso da perdere di significato. In università ne danno una definizione da imparare a memoria, “tatuatevela nel cervello” dicono, ma si fa davvero fatica a comprendere il suo significato nella pratica soprattutto quando le vite che incroci sono così distanti dalla tua.
Ed è qui che torna utile la scrittura, con una matita o sulle note del telefono l’educatore prende appunti su ciò che lo circonda. A volte seguire una traccia che diriga i nostri pensieri può essere fondamentale, piccoli esercizi di scrittura creativa possono fare chiarezza quando non riconosciamo chi abbiamo di fronte.
Una
professoressa durante uno dei corsi in università ci ha consegnato ed insegnato
come poter usare questo strumento per comprendere meglio chi abbiamo di fronte,
costringendoci a metterci nei suoi panni.
Questo
è un esempio di come si possa cercare di comprendere la persona, e non solo
l’utente, che abbiamo di fronte.
Settembre ‘19
Mi presento sono Giovanni (nome di fantasia), sono stufo di vivere, non riesco a vedere un futuro di fronte a me, c’è solo nero, nulla da scoprire, nulla per cui valga la pena continuare, niente che mi incuriosisca.
A volte l’apatia si fa così angosciosa che mozza il respiro e mi trovo a fare chilometri come chiuso in gabbia, in questo posto di matti, e non capisco se sto diventando matto anche io, o se lo sempre stato e non capisco il mondo fuori, nulla di certo a cui appigliarsi.
E alllora perché non lasciarsi scivolare giù, perché non cercare di sentire qualcosa, il raschiare di un cucchiaino di plastica rotto sul mio avambraccio.
Mi sorvegliano sempre, sono il più braccato.
Vale forse la pena iscriversi a filosofia?
Oh e ho un libro da prestarti, hai mai letto Borgess?
Ma la scrittura creativa ci viene incontro anche in altri momenti, può diventare un modo per esprimere un’opinione che non riesce a trovare il proprio posto nei documenti ufficiali siano essi relazioni di tirocinio o rielaborazioni sulle proposte presentate al servizio. Siamo esseri pensanti, professionali nel nostro lavoro, ma abbiamo emozioni che dobbiamo gestire in modo impeccabile per evitare che influenzino il nostro lavoro, abbiamo idee e riflessioni che possono discostarsi da quelle dei colleghi e che non riusciamo ad esprimere nel nostro ambiente senza causare fratture.
La
possibilità di avere sempre un quaderno, anche virtuale dove sfogarsi, dove
esporsi, dove lasciare che la parte emozionale talvolta soffocata abbia una sua
dimensione, ci è utile a non diventare apatici per paura di rivelare troppo.
Stavo scrivendo una relazione di tirocinio e nella correzione una professoressa mi fece notare che questa riflessione non era adatta ad un documento di quel tipo, la mia cocciutaggine però mi ha portata ad esplorare comunque l’argomento perché mi stava particolarmente a cuore.
Questo strumento mi ha dato la libertà di esprimerlo senza dovermi attenere ad un format specifico.
Maggio’18
Un problema esiste solo quando un’etichetta ti viene appiccicata addosso?
È diverso prendere consapevolezza di un problema quando a definirlo è un “altro, esterno alla mia vita, ai miei dolori e alle mie consapevolezze.
Un sig. Qualcuno, o un dott. Qualcuno che mette insieme sintomi e fa una diagnosi.
E io non sono più io, individuo, persona, cittadino ma divento solo la mia malattia, il mio problema. E più è precoce la diagnosi più è difficile descrivermi senza citare la mia malattia, è difficile crearmi, vedere un futuro, sapere chi sono davvero.
Niente di ciò che mi è successo, di io che provo o penso, di ciò che vivo o voglio mi descrive completamente.
Io non sono un alcolista
Non sono un drogato, non sono un malato
Non sono una vittima di violenza
Sono mille cose e se voglio domani mi ridisegno da capo
Anche in questo caso ho scritto in prima persona mettendomi nei panni di quelle che in un futuro potrebbero essere le mie future utenze, un processo che porta all’empatia e che da nuove prospettive di visuale su chi abbiamo di fronte. Queste parole mi sono d’aiuto ogni volta che cedo alle facili semplificazioni e cado nel processo di “etichettamento” con il quale noi professionisti della relazione ci proteggiamo dall’umanità a cui vorremmo dare aiuto.
(La
data non è errata, ho sempre tenuto in mano una penna e cercato di usare le
parole per mettere in ordine quello che portavo dentro, l’università ha
legittimato questa mia tendenza).
La
scrittura creativa non è solo uno sfogo, un mettere in luce le criticità del
nostro lavoro ma è anche tempo per riflettere su noi stessi e su ciò che muove
le nostre azioni, sulle motivazioni che ci spingono alla relazione con l’altro.
Può aiutarci a definire il nostro personale concetto di cura.
Marzo ‘19
Sono i piccoli gesti, i mezzi sorrisi, o il pensiero che torna a chi inizia a conoscere quando incroci qualcosa che te lo ricorda.
Sono i post-it azzurri con i titoli di canzoni che non avrei mai ascoltato altrimenti ed invece ho speso del tempo per te, per poterne parlare, per trovare qualcosa in comune.
Sono tutte le cose che ti facevo notare, lo starti col fiato sul collo, senza fartene passare una, osservarti ed ascoltarci, farmi tutta orecchio anche quando stavi semplicemente leggendo l’oroscopo.
Sono i mezzi sorrisi da dietro “l’acquario” quando ancora mezzo assonnato aspettavi il tuo turno per fare gli esami.
Vedere le rughe sul tuo volto distendersi un po’incrociando il mio sguardo, la mia dose quotidiana di vitamina D e fumo passivo, il saper aspettare per cogliere un segno, uno spiraglio di porta che si apre.
Gentilezze gratuite non prive di senso e citazioni di Guè.
Un ritaglio di giornale attaccato con lo scotch.
Volere un futuro per te.
Spero,
con questo articolo, di avervi fatto solleticare le dita e ispirato a prendere
in mano un pezzo di carta e di mettere per iscritto qualcosa per voi stessi.
Spero anche di avervi fatto sbirciare un po’ nel lato umano dell’educatore, nei
suoi pensieri e nelle sue emozioni perché anche di questi è fatto il nostro
lavoro.
Nell’immaginario
collettivo, ancora oggi la persona con disabilità è troppo spesso vista come un
angelo senza sesso e senza età, pochi immaginerebbero che in realtà crescendo
aumentano, anche per queste persone, i bisogni affettivi e sessuali.
Nella dichiarazione dei diritti sessuali del 2006 viene ribadito il concetto di riconoscere anche ai portatori di handicap, fisici e cognitivi, di esprimere la loro sessualità.
Già
approvato nel documento del 1993 emesso dall’assemblea Generale dell’Onu,
questo è un concetto purtroppo ancora non chiaro a tutti in Italia, infatti è
uno dei pochi Stati in cui manca (in particolar modo nelle strutture pubbliche)
un’educazione sessuo-affettiva da parte di professionisti specializzati che
aiutino questi soggetti a raggiungere il più alto livello di salute sessuale e
che eviti che, specialmente chi è più emarginato dalla società ricorra al
soddisfacimento dei bisogni sessuali tramite la prostituzione o l’intervento
fisico dei familiari. Condurre l’utente al raggiungimento di una maturità
affettiva è anche educare alla comprensione di quelli che sono i suoi bisogni e
quelli altrui con dei programmi specifici tenendo conto del tipo di disabilità.
Quando
si parla di sessualità nell’ambito della disabilità, purtroppo l’opinione
pubblica tende a generalizzare senza tener conto del fatto che non tutte le
disabilità siano uguali; infatti il disabile fisico deve affrontare, nel
momento in cui si affaccia a questo mondo, un lungo percorso fatto di
accettazione di sé e dell’immagine che gli altri hanno di lui.
Spesso
ci troviamo “nell’incapacità di fare”, o ci si trova “nell’incapacità della
responsabilità di fare”. In entrambi i casi però il sesso e l’affettività
devono diventare un piacere di cui godere e non un problema da risolvere.
Nella mia esperienza con la salute mentale mi è
capitato che i miei utenti, nonostante l’età matura mi chiedessero come fare ad
affrontare questo argomento, mi è stato detto che sentivano l’impulsi sessuali
ma anche l’impulso di amare ma non sapevano come sfogarli, come affrontarli,
perchè alcuni, rendendosi conto della loro diversità, avevano paura di
approcciarsi a qualcuno che non stesse vivendo la stessa esperienza di residenzialità
o semplicemente di percorso.
Allora con non poco imbarazzo ho risposto alle loro
domande, che erano le più disparate, ma alle quali era necessario trovar una
risposta che li aiutasse a chiarire cosa fosse per loro vivere l’intimità.
Per alcuni di loro, specialmente per i meno
consapevoli, è come vivere una favola: uno sguardo o una stretta di mano
potrebbe essere vista come l’inizio di una storia o addirittura il compimento
di un atto sessuale.
Se queste persone avessero la possibilità di essere informate da specialisti, in maniera dettagliata e non superficiale, potrebbero anche vivere il loro corpo in maniera diversa, con la possibilità di esplorarsi con consapevolezza ed evitare alcune frustrazioni dovute all’impulso.
Trovo che la mancanza di un’educazione sessuale
all’interno delle strutture sia una vera e propria violazione dei diritti: è
come l’ennesima gabbia dove rinchiudere l’utente dimenticandosi che prima di
tutto si tratta di una persona, fatta come tutti di carne e sentimenti.
La frustrazione che crea il non potersi esprimere, secondo me, potrebbe anche peggiorare la loro condizione.
Basta pensare a come si può sentire una persona
qualsiasi durante un periodo di forte astinenza dovuta alla mancanza di un
partner o ad un disagio del momento per rendersi conto della sofferenza provata
da una persona con disabilità fisica o cognitiva alla quale puó venire
addirittura impedita la possibilità di avere una relazione affettiva e sessuale
nel momento in cui inizia a provare un impulso.
Fortunatamente oggi si è iniziato a parlare di questo
tema, ed alcuni personaggi pubblici con disabilità hanno portato anche le loro
testimonianze in alcuni video sui social (Jacopo Melio, Arturo Mariani, Alex
Dacy, Valentina Tomirotti…) per dire al mondo intero che vivere la propria
sessualità, anche con una disabilità, non solo è possibile, ma è anche bellissimo.
Quando si discute della comunicazione e delle
sue barriere non si può fare a meno di parlare di un processo mentale che tutti
noi abbiamo sperimentato in un modo o nell’altro: il pregiudizio.
I pregiudizi possono, a tutti gli effetti, compromettere l’efficacia del processo comunicativo portandolo fino al più completo fallimento.
Ma che cos’è un pre-giudizio, come si forma e perché è così determinante?
Un pre-giudizio, lo dice la parola stessa, è
un giudizio dato su qualcosa o qualcuno prima ancora di avere avuto la reale
possibilità di conoscere quella persona o di avere provato quell’oggetto.
Questo avviene perché il nostro cervello ama usare delle scorciatoie per trovare le soluzioni che cerca e si sa… le scorciatoie ci fanno risparmiare tempo ed energia. Per fare tutto questo, il cervello tende a generalizzare delle informazioni per creare una regola da poter utilizzare quando ne avrà bisogno. In pratica tende a fare “di tutta l’erba un fascio”.
In psicologia si parla bias cognitivo.
Di solito il pregiudizio nasce da una
informazione che ci è stata data da qualcuno di cui ci fidiamo e che,
automaticamente, diamo per buona senza averla verificata in prima persona.
Mai sentito sentito parlare dell’effetto
Nobel? É quello che avviene quando una persona che ha una certa autorevolezza
in un determinato campo esprime una sua personale idea su qualcosa di non
attinente alle sue competenze e automaticamente anche ciò che ha detto (che
potrebbe non essere corretto) viene percepito come una verità.
Il cervello dice:”Se lo ha detto lui, deve essere vero!”
Altre volte il pregiudizio nasce dall’idea che
ci siamo fatti di qualcuno perché abbiamo vissuto un esperienza poco positiva
con una persona e per semplificare e proteggerci, il nostro cervello elabora
una strategia che ci avverte di un probabile pericolo qualora venissimo di
nuovo in contatto con qualcuno che lui ritiene simile a quella persona che ci
ha causato una volta, in passato, una sorta di dolore.
Il cervello dice:”Se è successo una volta, può ripetersi!”
Il pre-giudizio è un meccanismo inconscio che
il cervello crea per difenderci da un
eventuale dolore. La fiamma che alimenta questo processo è, però, la mancanza
di conoscenza che ci può fornire solo l’esperienza personale.
Il giudizio sta nel verificare come stiano
effettivamente le cose e poi tirare le somme.
Se vogliamo veramente comunicare con qualcuno,
bisognerebbe avere il coraggio di mettere da parte (almeno momentaneamente)
eventuali pregiudizi e valutare se valga la pena o meno di investire tempo ed
energie per creare qualcosa con quella persona.
Ma se partiamo dal presupposto sbagliato,
tutta la nostra comunicazione sarà gestita da quel pensiero.
Chissà quante occasioni ci siamo lasciati scappare senza neanche accorgercene?
Quello che volevo dire è che come educatori
abbiamo l’obbligo morale di metterci in gioco per primi nel processo
comunicativo. Abbiamo quella
responsabilità che deriva dalla consapevezza di non sapere mai chi
abbiamo davanti e quali cose potrebbe essere in grado di fare se gliene dessimo
la possibilità
Noi siamo possibilità, non le togliamo.
Luigi Luvinetti – Coach in Programmazione
NeuroLinguistica
Perché mai avrei pensato di sedermi sul divano e scrivere di bimbi e di storie, di magie e di vite vissute pulendo nasi gocciolanti, ridendo e consolando loro e i piccoli, grandi drammi.
Per questo lo faccio,
perché non l’avrei mai fatto prima.
Per rispetto delle loro piccole identità, assegnerò loro una
lettera al posto del nome.
“A”.
“A” è un bambino davvero intelligente per la sua età; spicca
accanto agli altri, si interessa di tutto e assorbe le nozioni come una spugna.
E’ un po’ timido a volte, ma una volta che abbattuto il muro della timidezza, si rivela un’anima davvero nobile, altruista e dolce.
Ha gli occhi tondi tondi scuri, che sorridono di dolcezza, miele puro.
Dice sempre cose buone e non fa mai male a nessuno. Sempre a difesa degli altri mostrando le sue buone ragioni,spiegando ai bambini cos’è giusto. Il tutto con una gran delicatezza; non si mette in mezzo, sta spesso in disparte e pensa tantissimo,si perde nei suoi pensieri e sparisce per un po’. Costruisce cose, disegna,scrive, legge ad alta voce.
E’ il bambino che ha pensato di far ridere gli altri
mettendosi le mutande sopra i pantaloni, rimanendo così tutta la mattina,
spiegando agli altri come ha
fatto,mostrando questa nuova moda.
E’ un leader autorevole che con i sorrisi e le carezze viene
seguito fino in capo al mondo.
Noi lasciamo fare, perché loro si divertono, ridono, son proprio belli. Non mi penserei mai di sgridare un bambino per aver messo le mutande sopra i pantaloni.
Beato divertimento, le risate sono il carburante della vita.
Lui è innamorato di “G” e le rivolge tutte le attenzioni del
mondo. Chiede sempre di lei, le porta l’asciugamano, se ne prende cura come un
dolce marito in vecchiaia. Lei ricambia con i suoi sorrisi e i silenzi
infiniti.
“A” anche quando perde non si intristisce mai, non che sia
un grande sportivo eh, fa il suo, gioca, ma se perde non porta rancore . E’
l’unico che ha la maturità di saper perdere divertendosi. Fa discorsi da adulto,
a lui non devi parlare cercando di convincerlo di una cosa, perché è davvero
sveglio e ti legge dentro. Vale la pena essere sinceri e accondiscendere a
questa realtà che lui richiede. Detto fatto.
Ti rendi proprio conto che è un bambino come gli altri
perché è il dormiglione del gruppo: dopo
pranzo sviene letteralmente in qualsiasi posto si trovi. Che sia la sedia a
tavola, che sia l’asciugamano sul prato. Dopo pranzo si dorme. Punto.
Si avvicina al tavolo delle “maestre” , partecipa per due secondi e sviene. Sta scomodo sulla sedia, allora di solito mi dorme in braccio, a peso morto, mortissimo. Dorme come un sasso, che posso portare in giro per tutto il giardino per poi adagiare sul prato, dove finalmente può rilassarsi del tutto e godersi il suo meritato riposo. Ovviamente veglio sempre su di lui, gli lascio il mio asciugamano che è più grande, così dorme comodo. Io sto seduta sul suo, dal quale mi escono mezze gambe. Ma va bene così, questo e altro per il riposo del mio topino.
Poi voglio parlare di “F”, che come tanti altri mi ha rapito il cuore.
F.
“F” è un bimbetto alto come un soldo di cacio e
con un sorriso che va da orecchio ad orecchio.
Porta gli occhiali e al momento gli mancano i due incisivi superiori ed uno inferiore. A detta sua è bruttissimo, ma io penso che sia come un personaggio dei cartoni animati, di una dolcezza unica, ed è bellissimo ai miei occhi.
“F” è una personcina proprio buffa, con una vocina che pare sia sempre fioco, specie quando fa gli acuti. Gli scivola la “s” a causa della finestra sul mondo che ha in bocca. Usa i plantari ai piedini e può indossare solo scarpe particolari; questo lo limita molto,perché spesso gli vengono delle vesciche fastidiose e non può correre. E lui ama tantissimo correre!!
Al momento gli sto insegnando a fare la ruota e lui vorrebbe imparare ogni segreto del mondo! Vuole conoscere tutto, saper fare tutto e ci prova con una determinazione invidiabile.
E’ uno di quei bambini che non sopporta la frustrazione, che
si avvilisce e si arrabbia quando sbaglia, va tutto in crisi, non ne esce. Per
lui ogni errore è una catastrofe insormontabile,un ostacolo per la vita. Si
mette le mani tra i capelli,impreca in calabrese, mette un broncio che gli
arriva fino alle ginocchia, e gli occhi gli si riempiono piano piano di
lacrimoni che gli bagnano il mento. Ma è un tipo che si lascia facilmente
consolare, che ricerca un abbraccio o una carezza, che ama il contatto fisico
in tutta la sua tenerezza ed innocenza. Ti guarda dal basso con quegli occhi di
sole e allegria, si tira su il morale anche da solo, una volta che gli si fa
vedere che il mondo, affrontato assieme fa meno paura; si impegna nelle cose, mamma mia se si
impegna! Ti chiama “ maestra”, ti dice che è riuscito a fare una cosa, che ha
abbattuto il suo ostacolo ed è più forte di prima. Brilla tutto, non sta fermo,
è elettricità, corre con la sua andatura buffa, mi viene a prendere la mano e
la sua sparisce nella mia. Una manina un po’ appiccicosa, un po’ sporca , che
racchiude il segreto della felicità del mondo in una stretta , un patto di
fiducia non scritto. L’origine di tutto il bene.
“F” è un bimbo che spesso si addormenta ascoltando le fiabe e l’altro giorno,rimasto assopito mentre gli altri bambini erano tornati a giocare, l’ho svegliato pian pianino per non fargli perdere il divertimento del pomeriggio. Si è destato con la fatica di un eroe alla domenica mattina, non riusciva a tenere la testa su e mi ha teso le braccia al collo, con gli occhi ancora socchiusi. Io, che mi sciolgo per queste cose, me lo sono preso in braccio stretto stretto, cullandolo in questo suo dormiveglia. Lui ha abbandonato la testolina sulla mia spalla, le braccia rilassate e si è appisolato.
In questa stretta così tiepida, piena di emozioni e profumo di cucciolo
mi sono resa conto che i bambini sono le persone migliori del mondo, che lui mi conosce da soli tre giorni e che mi ha affidato il suo sonno senza pensarci due volte. E mi domando come si possa fare del male ad una creatura così pura e genuina, ad un’anima che brilla in questo modo. Perché agli occhi di un adulto può sembrare normale, ma non vorrei mai perdere di vista che noi li guardiamo, ci parliamo, a volte diamo loro per scontati, e comunque siamo e saremo il loro punto di riferimento, di fiducia. E loro sono bambini, nient’altro che meravigliosi bambini e noi dobbiamo prenderci cura di loro in quanto adulti e dar loro il nostro 100% sempre; è una nostra responsabilità far vedere che il mondo è bello, meraviglioso ed insegnare come viverci.
Ringraziamo Rashid che tramite una breve intervista ci racconta della sua esperienza in Italia
Questa è la storia di Radhid arrivato dal Kashmir per
salvare la sua vita da chi voleva conquistare il suo paese.
Come ti chiami e quanti anni hai?
Mi chiamo Rashid e ho 36 anni
Da dove vieni?
Vengo dal Kashmir
Cosa facevi in Kashmir e come mai hai deciso di affrontare
questo viaggio per venire in Italia? Se non te la senti non rispondere
Lavoravo in un’organizzazione per la liberazione del
Kashmir, ho deciso di venire in Italia perché c’erano problemi con il governo pachistano per via
della mia organizzazione e la mia vita era in pericolo.
Puoi raccontarmi un po’ com’è andato il viaggio fino in Italia e come lo hai affrontato?
È molto difficile,
ci sono stati molto rischi per la mia vita. Io sono stato molto
fortunato, sono riuscito ad arrivare in Italia, durante il viaggio ho visto la
morte tante volte davanti ai miei occhi.
Ho fatto il viaggio a piedi, ho camminato tanti chilometri e ho anche attraversato il mare con una barca che si è ribaltata.
Com’è stata l’accoglienza in Italia?
Quando sono arrivato a Udine in stazione, la croce rossa
mi ha dato il benvenuto con biscotti, vestiti, caffè, lenzuola, mi sono sentito
bene.
Sei stato ospite nella caserma Cavarzerani e poi sei stato
trasferito. Com’è stata la tua esperienza nel progetto? Come passavi le tue
giornate?
Nel marzo 2017, quando ho sentito che mi trasferivano in
un altro progetto, ero preoccupato. Pensavo che mi mandassero in montagna, ma
quando mi hanno detto che sarei andato a Udine, in città, ero contento.
Ricordo ancora il giorno quando ho lasciato la Cavarzerani,
sono venuti gli operatori di Aracon (la cooperativa) a prenderci. Non conoscevo
la cultura italiana, perchè non potevo uscire dalla caserma, ero sempre chiuso
dentro.
Quando sono andato in Aracon, ho imparato tante cose. Ero sempre felice, era diventata la mia famiglia.
Avevo due operatrici brave, a volte litigavamo perché non
ci capivamo, loro non capivano me e io non capivo loro.
Ma adesso che sono fuori dal progetto, ho capito che loro avevano ragione. È importante andare a scuola, fare un corso, imparare l’italiano.
Aracon e l’Italia mi hanno dato molto. Io mi chiedo? Cosa ho dato io all’Italia?.
Finito il progetto che cosa hai fatto?
Quando ho finito il progetto SPRAR, ho iniziato a cercare
lavoro, mi sono fermato per un po ‘, poi ho ottenuto un lavoro in un progetto
che sto continuando tutt’oggi. È un buon lavoro.
Che aspettative avevi quando sei partito dal Kashmir? Era
come ti immaginavi venire in Italia?
No, quando ho lasciato il Kashmir, non pensavo di rimanere in Italia, pensavo di poter andare da mio fratello in Inghilterra.
Mi sono innamorato dell’Italia e mi sono fermato qui.
Cosa ne pensi della cultura italiana? Ti senti integrato?
Mi piace molto la tua cultura e dico sempre alle persone
che se tutti tenessero le menti aperte avrebbero successo ovunque.
Il ricordo più bello dell’Italia?
Il mio ricordo più bello è di aver conosciuto l’amore e
di essermi innamorato per prima volta di una ragazza italiana che è onesta,
sincera e gentile, aiuta tanto gli altri. Io amo lei, ma non so se lei ama me.
Per tutta la vita mi ricorderò di lei.
Oggi offriamo un piccolo viaggio, dal Mar Baltico alla costa orientale del Mar Mediterraneo, all’interno di due scuole lontane tra loro, raccontate da ex studenti.
Tra i modelli scolastici, quello svedese è considerato da
molti uno dei migliori. La scuola è alla base del progresso di un Paese, ed è
per questo che in Svezia vi è una particolare attenzione nell’agevolare il
percorso di studi per bambini e famiglie.
Proprio per questo le scuole svedesi cercano di garantire lo stesso grado di istruzione, annullando differenze di tipo economico.
Infatti, a tutti gli studenti vengono garantiti servizi gratuiti tra cui la mensa, anche per chi finisce alle 13, trasporti pubblici gratuiti dal lunedì al venerdì, durante il periodo scolastico, ingressi ai musei e i materiali di cui abbisognano, quindi quaderni, matite e penne. Gli studenti vengono inoltre dotati di tablet o computer in comodato d’uso, su cui vengono caricati i programmi di studio e che possono usare durante il tempo libero, la famiglia può anche scegliere di optare per strumenti informatici più performanti, versando una piccola quota alla scuola come garanzia.
Dalla prima media i ragazzi possono rapportarsi con uno
psicologo e un sessuologo messi a disposizione dalla scuola, che hanno il
compito di seguirli e supportarli in un momento così delicato quale
l’adolescenza.
Il percorso scolastico pubblico è suddiviso in 13 anni:
1
anno di scuola prescolare;
9
anni di scuola dell’obbligo;
3
anni di scuola superiore.
L’obbligo scolastico inizia a 7 anni, a 5-6 anni è però
possibile frequentare un prescuola che prepara il bambino agli anni successivi,
in modo che non si ritrovi spiazzato dal passaggio brusco tra giornate passate
a giocare (scuola materna) e il vero e proprio inizio del percorso di studi.
Le elementari durano 6 anni, mentre medie e liceo 3 anni,
l’obbligo scolastico termina al compimento del 16° anno.
Le lezioni durano 45 minuti perché secondo vari studi psicologici e pedagogici, dopo questo periodo si ha un calo della soglia dell’attenzione e in linea con gli stessi studi viene fatta una pausa di un quarto d’ora in cui gli studenti sono obbligati ad uscire dall’aula per godere dell’aria aperta. Per la pausa pranzo e a metà mattina si ha a disposizione una pausa più lunga di 30-35 minuti.
Per i bambini delle elementari dopo l’orario scolastico sono
disponibili dei post-scuola fino alle 18, dove passano il tempo a giocando o
imparando a suonare uno strumento. I compiti a casa infatti, sono pochissimi
perché dopo 5 ore di scuola (8-13) il bambino è stanco e ha il diritto di
riposarsi. Quotidianamente vengono affrontate tre materie, per non creare
troppa confusione nell’apprendimento. L’abbandono scolastico si aggira intorno
al 2% e la media di studenti universitari che portano a termine il corso di
laurea intrapreso è altissima quasi 98%.
Il tempo a scuola è sfruttato al massimo, chi ha difficoltà
come dislessia, discalculia, può impiegare il pomeriggio per fare esercizi di
recupero senza rischiare di rimanere indietro con altri compiti.
L’assunzione degli insegnanti è
demandata ai vari comuni, che possono assumere e/o licenziare in caso di
necessità, il loro stipendio è fissato da un contratto collettivo nazionale, ma
può variare da comune a comune. Durante il periodo di “vacanza estiva” gli
insegnanti hanno l’obbligo di seguire corsi di formazione e aggiornamento.
Anche a loro vengono forniti in comodato d’uso gratuito pc/tablet da utilizzare
esclusivamente per l’attività scolastica.
Abbiamo avuto l’occasione di poterci far raccontare anche come sia il sistema scolastico in una città grande della Palestina come Hebron.
Il percorso scolastico pubblico è
suddiviso in 12 anni:
6 anni di scuola elementare;
4
anni di scuola media;
2
anni di scuola superiore.
In questo caso le materne
esistono solo sotto forma di scuole private a pagamento. Per le elementari,
medie e superiori statali vi è invece una sola quota di corrispettivi 10 euro
ed i libri vengono disposti gratuitamente ai bambini con il patto di
restituirli a fine dell’anno.
Nelle grandi città le classi sono
formate da 30/40 allievi e gli insegnanti si dividono in due turni, la mattina
ed il pomeriggio, al fine di rispondere alla grande domanda di alunni e ovviare
leggermente al problema degli spazzi ristretti delle aule. Non ci sono in oltre
classi miste fino alle medie, tranne in alcune scuole private, come quelle
cattoliche per esempio, in cui non vi è una divisione di genere per nessun
degli anni scolastici.
Il metodo didattico si basa prettamente sulla memoria e la teoria, di fatto è raro trovare scuole in cui ci siano materie verso l’arte, come per esempio musica. In più solo in poche strutture c’è la possibilità di scegliere un’altra seconda lingua oltre all’inglese, com’è invece di consueto nelle medie. Oggigiorno però si è diffuso l’insegnamento di tale lingua già dall’elementari.
Per questioni culturali è molto
sentito l’insegnamento della religione. Infatti, escluso per chi è cristiano ed
in certe scuole, vi è l’obbligo di insegnare e partecipare alla lezione per
tutti gli allievi.
Rispetto all’Italia, c’è una
tipologia più ristretta di indirizzi scolastici delle scuole superiori. Si può
scegliere tra: il liceo, scientifico o classico, oppure il
tecnico-professionale, il quale spazia dal corso informatico a quello di
falegnameria. Esiste però un’altra curiosa realtà relativa alle scuole private,
ossia ci sono dei gemellaggi con scuole di altri paesi, le quali offrono
l’esperienza di poter fare uno scambio tra alunni di distinte realtà. Ciò
permette a questi ragazzi di poter vivere e osservare per un breve periodo
diverse prospettive sociali e culturali. In più vi è un ulteriore particolarità
che riguarda le scuole gestite dall’ UNRWA, ossia l’“Agenzia delle Nazioni
Unite per il soccorso e l’occupazione
dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente”, la quale si dedica
gratuitamente al soccorso, allo sviluppo, all’ istruzione, all’ assistenza
sanitaria, ai servizi sociali e ad aiuti di emergenza per i rifugiati delle
zone di guerra.
In Palestina non c’è l’obbligo
scolastico, infatti è comune che ragazzi tra i 12 e 15 anni decidano di mollare
gli studi per lavorare. Solitamente le ragioni consistono nella necessità di
dover aiutare in casa economicamente o nell’attività di famiglia.
Infine vi sono le università, le
quali sono solo miste, sebbene la presenza femminile sia una minoranza. Queste
seguono un modello statunitense per cui vi sono 2 anni, alla fine dei quali si
prende un diploma. Successivamente è possibile scegliere tra due alternative:
4
anni di università, alla conclusione dei quali viene rilasciato il “bachelor’s
degree”, che andrebbe a corrispondere all’equivalente della triennale in
Italia;
Fare
un corso di laure della durata di 5 anni.
Dopodichè, se si vuole continuare
gli studi, ci sono 2 anni di magistrale ed infine 2 o 3 anni (dipende dal corso
che si va a scegliere) di dottorato.
Il sistema degli esami è molto
più complesso rispetto a quello italiano, in quanto in tutti i corsi vi è
l’obbligo di frequenza. Alla fine di questi vi è un solo appello e nel caso non
si riesca a superarlo, si è costretti a rifrequentare il corso dall’inizio e
ritentare l’anno successivo. Questo crea non poche difficoltà ai lavoratori,
per i quali vi sono poche agevolazioni.
Infine vi sono anche le borse di
studio, le quali tengono conto principalmente della situazione familiare, più
che della media dei voti, però purtroppo c’è ne sono poche.
Questa esperienza che ci è stata
raccontata si basa su 12 anni fa, perciò oggigiorno può essere effettivamente
cambiato qualcosa, e si tratta di una città in cui c’è relativo benessere
rispetto alle zone colpite dalla guerra, dove purtroppo la situazione è ancor
più differente.
Mi chiamo Federica, sono un’infermiera pediatrica e lavoro dal 1986 nell’ospedale di Udine.
Nel 2006
dopo una lunga riflessione relativa al mio lavoro e a ciò che mi sarebbe
piaciuto fare, ho deciso di approfondire le mie
competenze lavorative all’estero, desiderosa di vivere nuove esperienze che
potessero arricchirmi professionalmente ed umanamente. La destinazione
affidatami dall’ONG a cui mi rivolsi fu l’Afghanistan.
Per me
rimaneva assolutamente indifferente la meta, qualsiasi luogo avrebbe arricchito
il mio bagaglio di esperienza e di vita.
Nell’agosto
del 2006 parto per la Valle del Panshjr situata a nord dell’Afghanistan, in una
zona montuosa con altitudini di circa 2000 metri immersa in un clima
continentale, con inverni rigidi e nevosi ed estate caldi. Ci rimarrò per
sei mesi. In quel periodo il Paese viveva una calma apparente: i talebani erano
momentaneamente bloccati, diminuivano gli attentati e nella capitale la vita
trascorreva normalmente. Nel territorio erano ancora presenti alcune truppe
americane, italiane ed inglesi. Lo staff con cui operavo si spostava sotto
scorta non armata. In quel periodo si provvedeva allo sminamento di alcune
parti della zona, tuttavia ogni giorno in ospedale giungevano feriti colpiti
dallo scoppio delle mine antiuomo. Le vittime erano per lo più donne e bambini
perché occupandosi del bestiame e quindi del pascolo si addentravano in aree
ancora pericolose.
Io mi occupavo dei bambini ricoverati nella zona destinata al reparto pediatrico: offrivo assistenza ai neonati in sala parto, aiutavo le puerpere per l’allattamento al seno, ho collaborato ad alcuni interventi chirurgici sui bambini o in pronto soccorso generale in caso di necessità. Lo staff ospedaliero era composto da personale locale, coordinato da quello internazionale, che svolgeva corsi di aggiornamento teorici e della tecnica medico- infermieristica.
Per il
gruppo internazionale non esisteva l’orario di lavoro, la nostra reperibilità
era di 24 ore al giorno. Alcune giornate non si ritornava a casa prima di sera,
arrivavano sempre delle chiamate notturne. Alle volte potevamo concederci qualche ora di pausa che
trascorrevamo assieme chiacchierando e giocando, ascoltando musica e
condividendo attimi di vita quotidiana. Confrontando i mesi di permanenza
presso l’ospedale del villaggio e comparandoli con gli anni di lavoro svolti
nella mia carriera da infermiera, posso affermare che le patologie ostetriche, riscontrate in
quel periodo, sono
state oramai superate dalla medicina occidentale. Quest’ultima si affida a costanti
controlli e a tecnologie all’avanguardia che accompagnano la gravidanza delle
nostre madri.
Le patologie pediatriche più frequenti erano: la malaria (endemica in Afghanistan), la malnutrizione e denutrizione dovuta alla povertà della popolazione, le malattie respiratorie e gastrointestinali spesso con esito fatale, causate dalle condizioni igienico sanitarie scadenti.
Spesso
l’operatività e la necessità di alcuni interventi d’urgenza, che riguardavano
soprattutto le donne, andava a scontrarsi con la cultura islamica. Uno degli
episodi che ricordo, fu quando un marito negava il permesso di un taglio
cesareo urgente della moglie, in quanto il chirurgo operante era uomo.
Fu molto
difficile persuaderlo. Solo di fronte alla morte certa della consorte e del
figlio, riuscimmo ad ottenere il consenso all’intervento.
Lo staff internazionale alloggiava in una casa a circa un chilometro dall’ospedale. Ogni giorno e ogni notte venivamo accompagnati dalle nostre guardie locali che non erano armate, ma che in caso di pericolo avrebbero potuto scontrarsi con eventuali malintenzionati. Ognuno aveva una camera da letto e condividevamo gli altri spazi comuni. Cenavamo sempre assieme aspettando che anche gli ultimi colleghi rientrassero dal lavoro.
Cucinare e
stare a tavola era l’attività che ci univa, spesso capitava di incontrarci per
la cena insieme ai medici afghani che apprezzavano i nostri cibi. Organizzammo
delle feste di compleanno, alla quale parteciparono anche gli operatori locali
e al termine del ramadan furono loro ad invitarci nella mensa dell’ospedale per
festeggiare assieme. A Natale ci fecero trovare degli addobbi in reparto
costruiti con carta igienica, guanti gonfiati a palloncino e petali di fiori
sui tavoli.
A distanza
di anni ciò che rimane vivido in me è il ricordo di un’umanità pura che, seppur
provata e martoriata nell’intimo dalla guerra, mantiene la sua dignità e il suo
coraggio.
Mi è difficile non pensare a tutti quei bambini che ho assistito e non immaginare per loro un futuro diverso. Rifletto sull’idea di come avrebbe potuto essere la loro vita se solo fossero nati in un posto e in un tempo diverso.